La Stampa, 21 settembre 2019
Intervista a Alberto Fortis
Sono passati 40 anni da quel 1979 in cui sulla scena pop italiana esplode la bomba Alberto Fortis, tra invettive contro la capitale corrotta («Vi odio voi romani, io vi odio tutti quanti, brutta banda di ruffiani e di intriganti»), minacce ai discografici cattivi («Vincenzo io ti ammazzerò, sei troppo stupido per vivere»), poetici racconti di vita e morte («Vedevo un’ombra appesa, la vedevo dondolare, l’ombra non voleva stare sulla sedia di lillà»).
Com’è, riascoltarsi e ripensarsi oggi, 40 anni dopo?
«Fu un’esplosione, è vero. Quell’album rimane emblematico per le tematiche, per certi passaggi generazionali, per l’onda artistica che cavalcò. E per la genesi: era stato rifiutato da tutte le case discografiche. All’ultimo tentativo mi salvò il presidente della PolyGram, francese, laureato alla Sorbona, che mi offrì un contratto di cinque album».
E la affidò a Claudio Fabi, grande arrangiatore, e alla PFM come band di supporto. Non male per un debuttante.
«La PFM, Fabi, Alberto Salerno come produttore, il Castello di Carimate come studio: è l’eccellenza italiana in quel momento. Poi ci metto del mio. Nel primo album, Alberto Fortis, ci sono azzardo, coraggio, rischio, le mie caratteristiche. Il secondo disorienta, il terzo è il grande successo».
Porta sonorità e parole nuove nella canzone italiana.
«Forse perché comincio da batterista, nella band del collegio, a Genova: imitavamo Vanilla Fudge, Pink Floyd, Grand Funk Railroad. Intorno ai 17 anni sento un’attrazione per il pianoforte e inizio a scrivere. La primissima cosa è la suitedel secondo album. Così, per una serie di contatti, innamorato della scuola cantautorale romana, di De Gregori e Baglioni, finisco alla It di Vincenzo Micocci, una specie di succursale della mitica Rca».
Eccoli, i romani che definirà «brutta banda di ruffiani e di intriganti».
«Per un anno e mezzo tutti i martedì vado a Roma, dove non succede niente, nessuno decide che fare di me. All’ennesima audizione, Ennio Melis, grande capo Rca, mi dice: "Abbiamo qualcosa di nuovo?". E fa lo spiritoso: "Vogliamo le cose forti da Fortis". Gli faccio qualcosa di forte, A voi romani: "Siete falsi come Giuda, e dirvi Giuda è un complimento". Scende il gelo, solo Roberto Davini, toscano, con una scena fantozziana si alza in piedi per applaudire e poi si risiede. Nanni Ricordi e Roberto Manfredi, milanesi, ridono sotto i baffi».
Cosa c’è in quella canzone?
«Prima di tutto la rabbia di chi a vent’anni si trova bloccato in una situazione assurda. Ovviamente non ce l’avevo con i singoli romani, in fondo parlavo di malgoverno, di ciò che poi hanno chiamato Mafia Capitale. E c’è il desiderio di andarmene da lì, essere libero».
Quindi funzionò?
«Non subito. Mi trasferisco a Milano e continuo a incassare dei no. Mi boccia anche Lucio Salvini alla Ricordi, un grande discografico. Dice che c’è una canzone ma non un album. E poi aggiunge: adesso però non scrivere "Lucio io ti ammazzerò…"».
È l’album che conosciamo, con le canzoni milanesi (Milano e Vincenzo e Il Duomo di notte)?
«Sì. Mi salva Mara Maionchi, che lavora in Ricordi: con un’azione carbonara lo passa a suo marito Alberto Salerno e lui alla PolyGram. E Alain Trossard dice sì. Non solo: difende La sedia di lillà, che dura cinque minuti e mezzo e volevano farmi accorciare. È la canzone più amata di quel disco».
Si è mai chiesto se oggi uscirebbe un album simile?
«Certo. E la risposta è no. C’è una censura molto più silente e forte. Ci sono tre o quattro centri di potere, se non vai bene anche a uno solo di questi tutto diventa difficile. Le radio sono meno libere, c’è una subdola imposizione di codici, il sistema premia la musica liquida per ragazzini: la riprova è nella volgarità dei testi trap, privi di proposta, bellezza, ricerca. Cinque autori fanno i brani per tutti, un tempo andavi fuori al terzo flop, oggi dopo tre settimane. C’è bisogno di un giro di boa artistico ed epocale».
Cosa accadde quando uscì A voi romani?
«Mi sposarono le radio libere, forse qualcuno alla Rai me la giurò. L’episodio più divertente fu con Pippo Baudo. Stavo facendo un’intervista radio nei corridoi Rai quando sento una voce tonante: "Chi è quell’’incivile? Voglio conoscere quell’incivile". Era Baudo, appunto, che poi, anni dopo, mi fece fare un passaggio per nulla scontato su Raiuno con un video da Koyaanisqatsi, a dimostrazione che le persone intelligenti vogliono capire e amano il confronto».
E Vincenzo (Micocci)?
«Prima male, poi benissimo. Ironia della sorte, a un certo punto finisco in una casa discografica in cui lavorano i suoi tre figli. Dopo i primi momenti di imbarazzo diventiamo amici. E quando loro padre ha scritto l’autobiografia, io ne ho scritto le prefazione».
Chissà quante volte le hanno chiesto se era leghista?
«Io sono sempre stato troppo di sinistra per quelli di destra e viceversa. Auspico una terza via che salti i manierismi della politica, credo che l’arte abbia il diritto/dovere di mettere l’anello nel cratere del vulcano, per distruggere il sistema economico che ci opprime».
Che succede, ora?
«Presto esco con un album dal vivo registrato al Castello Sforzesco di Milano con ospiti Rossana Casale, Francesco Baccini, Danilo Rustici. È la registrazione di un concerto di qualche mese fa che dura quasi due ore e tocca tutti i punti fondamentali, dal primo all’ultimo».