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 2019  settembre 21 Sabato calendario

Intervista a Jarbas Faustinho, detto Cané

Fine estate del ’62: l’Italia scopre che il campionato di calcio ha un tocco di colore. Dal Brasile per la prima volta sbarcano in serie A tre negretti, come li definisce un titolo dell’epoca, parlando di meraviglie color ebano degli stadi. A dire il vero il pioniere fu un uruguayano, Roberto La Paz, che giocò qualche partita nel Napoli del ’47, ma si trattava più che altro di un mulatto. Jair da Costa, Germano de Sales e Jarbas Faustinho, detto Cané, erano invece i primi tre uomini neri del nostro calcio, gli apripista di un contingente che ci avrebbe regalato campioni, talenti, grandi stelle ma anche polemiche e rigurgiti di ignoranza in tutti gli stadi. Di quei tre pionieri, il milanista Germano brillò pochissimo e passò alla storia solo per le sue avventure sentimentali che allora fecero scandalo, l’interista Jair fu un simbolo della grande Inter di Herrera, segnò il gol partita nella finale di coppa Campioni col Benfica e a fine carriera se ne tornò a casa, il terzo invece, il napoletano Canè, è rimasto nella città che lo accolse 57 anni fa ed è pronto a festeggiare gli 80 anni ormai più da partenopeo che da carioca.
Jarbas Faustinho parla un italiano perfetto e divertentissimo, mischiando qualche cadenza portoghese all’inflessione napoletana, ormai padrone del dialetto di Eduardo con cui ha dovuto fare ben presto i conti, perché negli anni Sessanta lo si parlava persino in squadra con tanti guaglioni cresciuti ai piedi del Vesuvio. «Mi sono ambientato subito, perché questa città assomiglia molto alla mia terra: dico sempre che sono un uomo fortunato per aver vissuto a Napoli ed essere nato a Rio».
Ma come fu l’impatto di un ragazzo di colore con l’Italia?
«Io conoscevo poco l’Europa e sinceramente non mi ponevo questo problema. Anzi, posso dire che non me ne accorgevo neanche. Sapevo che qui c’era una grande civiltà e non avrei avuto problemi. Certo, allora a Napoli di neri se ne vedevano pochi e ricordo i ragazzini al Vomero che mi dicevano, quasi con curiosità, nero, nero, nero... E io rispondevo bianco, bianco, bianco e tutti a ridere».
Ma adesso il problema del razzismo negli stadi è esploso. L’ultimo allarme l’ha lanciato Lukaku.
«No, non credo che si tratti di razzismo. L’ho già detto quando c’è stato il caso Koulibaly. Il razzismo è discriminazione, queste sono offese, anche se volgari, un voler innervosire l’avversario, voler disturbare le società. Non sanno come insultarti e allora ti gridano negro. Ma io venivo da un paese dove le differenze razziali si sentivano ancora. Noi neri eravamo la maggioranza, ma certo eravamo anche la parte più povera. Pensi che c’erano ancora dei club calcistici, come la Fluminense, dove giocavano due o tre campioni di colore ma non erano ancora ammessi alla vita sociale del club. Uno di questi era addirittura Didì, che tra l’altro era sposato con una bionda bellissima che si è poi data da fare parecchio per far cadere queste barriere e far accogliere il marito in pieno».
Lei quindi è cresciuto in questo panorama...
«In famiglia ho avuto un’educazione molto severa: mio padre era di razza africana e in casa lavorava solo lui, mia madre invece doveva crescere sette figli ed era di discendenze portoghesi, si chiamava Imperalina. È lei che mi ha chiamato Canè, da piccolo, perché tenevo sempre in mano la caneca, la tazza del latte. Poi però appena ho scoperto il pallone... Ricordo che alla domenica giocavo anche tre partite, due in spiaggia a piedi nudi, e una con le scarpe. Anche mio padre era appassionato di calcio, ricordo che andò a vedere la finale mondiale del ’50 al Maracanà ma portò solo mio fratello maggiore. Io rimasi a sentire la radio e a piangere per quella sconfitta incredibile con l’Uruguay. Avevo undici anni e i Mondiali per un ragazzino erano tutto. Ricordo anche quelli successivi, le grandi foto sui giornali. E il mio sogno era quello di venire a giocare in Europa».
Finché lo realizzò veramente.
«Sì, e alla grande. Mi sono innamorato subito di Napoli e mi sono innamorato anche di una ragazza napoletana che è mia moglie da 53 anni. E adesso faccio serenamente il pensionato e il nonno a tempo pieno: ho quattro nipotini, avuti da due figli. Uno mi somiglia anche molto, come movenze, quando gioca a pallone. Chissà. Però adesso è dura emergere, devi fare la scuola calcio. Ai miei tempi invece... Ma quale scuola calcio?».
Ha parlato del Maracanazo: è stata peggio quella disfatta o quella del Mineirazo, il 7-1 con la Germania del 2014?
«Due belle catastrofi, tutte e due incredibili. Ma forse la prima è stata più tragica perché c’erano duecentomila persone dentro il Maracanà e quattrocentomila fuori, tutti pronti per la grande festa. E invece finì addirittura con dei suicidi. Quella del 2014 fu altrettanto disastrosa, ma fu attenuata dal fatto che non era ancora la finale e che si stemperò in un mondiale comunque bellissimo, che aveva fatto divertire la gente in tutto il Brasile. Io ero là, ma non riuscii ad andare a vedere una partita perché c’erano dei prezzi folli: un biglietto a 500 euro, 4000 dai bagarini».
Le è rimasto il rimpianto di non aver mai giocato in Nazionale?
«Sì, ma allora chi veniva a giocare in Europa non veniva più convocato. Dovevi fare una scelta. Capitò a Jair dopo i Mondiali del ’62 in cui fu la riserva di un fenomeno come Garrincha, uno ai livelli di Maradona. Capitò ad Altafini che infatti si fece naturalizzare italiano. Una cosa assurda che andò avanti fin quasi al Duemila».
A proposito di Garrincha: chi erano i suoi idoli da ragazzo?
«Didì, Zizinho, Ademir da Guia, i grandi degli anni Cinquanta. E poi c’era Pelè che è più giovane di me ma giocava già in serie A quando io ero ancora nelle giovanili».
Ma è vero che Achille Lauro, il Comandante, la scelse perché era talmente nero che poteva impressionare i difensori?
«Questa storia è frutto della fantasia dei napoletani. Ma l’ho sempre accettata, mi sono adattato completamente al loro modo di pensare e di vivere».
Ma com’era Lauro?
«Un potente, ma un uomo di una simpatia straordinaria. Nel calcio ci metteva tanti soldi, ma poi la società la faceva amministrare da altri, come il figlio Gioacchino o come Fiore che divenne presidente operativo e se ne intendeva di calcio, tanto che costruì il grande Napoli di Sivori e Altafini».
Lei però non sfondò subito a Napoli. Un giornale titolò un po’ volgarmente: Cané o cane?.
«Sì, ma la gente mi amò subito, perché aveva capito che non ero un pacco. La verità è che mi sfruttarono nella battaglia politica tra i due grandi giornali di Napoli: il Mattino mi massacrava, mentre il Roma, che era di Lauro, mi esaltava».
L’allenatore che le ha dato di più?
«Pesaola, il Petisso. Se non fosse stato per lui probabilmente non sarei nemmeno qui, me ne sarei tornato a Rio. Lui mi spostò a giocare da ala perché aveva capito che in quel ruolo avrei dato il massimo. Però anch’io ce l’ho messa tutta, perché non volevo che il mio sogno fallisse, anche se il Napoli di allora era una società disorganizzata. Pesaola ci riportò in serie A, ci fece vincere la coppa Italia e ci fece sfiorare lo scudetto. Poi entrò in collisione con Fiore, che era invidioso di lui, e se ne andò via. A vincere lo scudetto a Firenze. Ma poi tornò a Napoli e io gli sono rimasto vicino fino ai suoi ultimi giorni».
E partito Pesaola se ne dovette andare anche lei.
«Sì, arrivò Chiappella, ma soprattutto arrivò il nuovo presidente Ferlaino che mi vendette al Bari. Ricordo che lo scoprii in aereo mentre tornavo dal Brasile e uno steward mi fece vedere un giornale con la notizia in prima pagina: Cané al Bari. Se non fossi stato sposato, sarei tornato a Rio con quello stesso aereo. Mi sentii tradito, cercai di oppormi, ma allora c’era poco da fare».
Ma è vero che la cedettero per 71 milioni, non uno di meno, perché il 71 nella smorfia è l’uomo da poco?
«Un’altra bella storia... No, costai 86 milioni che ai tempi erano bei soldi. Quella del 71 è una barzelletta, ma ho accettato anche quella, ormai qui mi sono integrato».
E a Bari si ritrova con Oronzo Pugliese. Dal nome del mago di Turi e dal suo soprannome, Lino Banfi ci tirò fuori una stupenda parodia.
«Pugliese era un altro personaggio simpaticissimo. Certo il suo era un calcio un po’ improvvisato. Ma quel Bari in serie A era partito molto bene. Poi Pugliese pagò uno scontro con un giornalista del Corriere dello Sport e la società lo esonerò. Sa, allora i giornalisti erano molto potenti».
Tre anni che la rilanciarono verso Napoli per una grande conclusione di carriera. Qual è la sua partita indimenticabile?
«Quelle in cui battevamo la Juve, il Milan, l’Inter e la Roma. E il gol più bello per me era sempre l’ultimo. Un anno ne ho fatti 16 che valgono come 40 di adesso. Con certe difese... Allora fare una tripletta era un avvenimento, e io ne ho fatte un paio. Qui a Napoli se le ricordano ancora».
Il suo compagno ideale?
«Vincenzo Montefusco, napoletano verace, ho dormito in camera con lui un’infinità di volte. Quanti scherzi ci siamo fatti».
Il suo campo preferito?
«Mi piaceva San Siro, per forza. Ma anche Roma, perché arrivavano da Napoli trentamila persone, magari sulle 500 e senza la tessera del tifoso. Adesso invece andare allo stadio sembra di andare alla guerra».
Il suo Napoli le sta dando ancora delle belle soddisfazioni.
«Sì, l’altra sera con il Liverpool ci siamo esaltati. In coppa facciamo grandi cose ma in campionato serve continuità. Noi siamo sempre stati così: anche ai miei tempi ci esaltavamo contro le grandi squadre e poi magari perdevamo a Varese. Spero che dopo il Liverpool non succeda così a Lecce».
Chiudo con una provocazione per un napoletano come lei: ma le dava più fastidio se le davano del negro o del terrone?
«Ah... Non ho mai avuto di questi problemi. Le offese per il colore della pelle le fanno persino ai gialli. E pensi le discriminazioni che hanno subito gli ebrei. Eppure non mi risulta che fossero neri...».