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 2019  settembre 20 Venerdì calendario

Intervista a Farinetti (sulla cessione di Lurisa a Coca-Cola)

«Non ho venduto l’anima al diavolo. La cessione della Lurisia a Coca-Cola è un’ottima notizia per l’Italia. Le multinazionali non vanno demonizzate e bisogna lavorare con loro perché si comportino meglio». Oscar Farinetti avrebbe volentieri fatto a meno di una giornataccia così. Eataly (assieme alle famiglie Boroli-Drago e Invernizzi) ha ceduto le storiche acque minerali e il chinotto piemontesi al "babau" di Atlanta. E "sull’uomo che passa il tempo a parlarci di genuinità, biodiversità e territorio", come ironizzava ieri Twitter, si è scatenata la bufera: Slow Food e l’amico di sempre Carlin Petrini hanno interrotto immediatamente i rapporti di collaborazione con Lurisia. I social («non li leggo», minimizza lui) l’hanno messo nel tritacarne accusandolo di incoerenza.
Esagerano?
«Diciamo che me l’aspettavo, sono cittadino del mondo. Potrei dire che io personalmente non mi sono occupato dell’operazione e che Eataly in questo caso aveva altri soci e non poteva decidere da sola. Ma non sfuggo alle responsabilità: non sono contrario all’intesa e trovo l’ingresso della Coca-Cola in Lurisia una grande opportunità per l’Italia».
Ma è la stessa Coca-Cola che Eataly, per scelta, ha deciso di non vendere… «Nel’68 anche io ero contro l’imperialismo delle multinazionali. Ma da allora queste realtà sono cambiate e migliorate. Il fatto che Atlanta metta dei soldi per investire in un’azienda artigianale italiana è un ottimo segnale per il nostro Paese. Creerà nuovi posti di lavoro, continuerà a comprare il chinotto dagli agricoltori savonesi che aiutiamo da anni. E salvaguarderà lo stile e le radici tricolori del marchio. L’ha comprato per quello e sono sicuro che lo farà crescere in tutto il mondo».
Avete ottenuto garanzie concrete sul mantenimento di produzione e brand nel territorio d’origine?
«Certo. Ma in qualche modo non ce n’era nemmeno bisogno. Non ha senso avere in portafoglio la Lurisia per poi non valorizzarla per quello che è. La Bmw si è presa Rolls Royce e continua a produrla in Gran Bretagna. Fca ha la Ferrari ma non si sogna certo di sradicarla da Maranello. Lurisia nel suo settore è una piccola Ferrari. Fa bevande non pastorizzate scegliendo i migliori ingredienti nelle loro aree d’origine. E sono sicuro che continuerà a farlo anche con i nuovi padroni».
Slow Food e Carlin Petrini non sembrano pensarla come lei e hanno preso le distanze dall’operazione. Parlano di "filosofie differenti". Sbagliano?
«Capisco la loro posizione. C’è l’evento "Cheese" in corso e non potevano fare altrimenti. Ma sono sicuro che tra un po’ si siederanno a un tavolo con la Coca-Cola per parlare dello spirito dell’accordo e dei progetti del gruppo Usa. E poi vedremo».
Lei sa già quali sono questi progetti?
«Ho conosciuto i manager di Atlanta. Sanno di avere una grande responsabilità sociale nei confronti dell’ambiente e del pianeta e si muovono di conseguenza. Hanno idee serie e sono molto rispettosi dei valori della Lurisia. Non viviamo più nel mondo dominato dal retro-pensiero che vuole tutte le multinazionali, per definizione, cattive. E a mio parere bisogna lavorare per aiutarle a consolidare comportamenti sempre più virtuosi».
Il manifesto di Eataly parla di un’azienda "innamorata dei cibi e delle bevande di qualità, delle loro storie, delle tradizioni, delle donne e degli uomini che li producono, dei luoghi in cui nascono. La Coca-Cola c’entra con questo mondo?
«Non vedo nessuna incoerenza. Certo, a volere essere radicali si può decidere che vogliamo ribaltare il modello sociale in cui viviamo chiedendo la chiusura delle multinazionali. Ma vale per tutti, in fondo anche la San Pellegrino è della Nestlé. Per me però è molto più efficace nel lungo termine dialogare anche con le grandi aziende internazionali, convincendole ad accettare i nostri valori e le nostre regole. È nell’interesse di tutti.
Nessun pentimento insomma per essersi seduto al tavolo con Coca-Cola?
«No. Anche perché Eataly con i soldi incassati grazie alla cessione di Lurisia potrà aprire altri sei negozi negli Stati Uniti. E quei punti vendita diventeranno la vetrina per promuovere Oltreoceano il made in Italy della tavola, portando negli Usa i prodotti dei nostri artigiani, dei piccoli agricoltori e degli allevatori con cui lavoriamo da tempo. Un’opportunità che altrimenti non avrebbero mai avuto ».