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 2019  settembre 20 Venerdì calendario

I ragazzini italiani e l’alcol

I ragazzi italiani possono bere alcolici per svariati motivi - per sentirsi meglio insieme, perché semplicemente gliene offrono e gli piace, perché vogliono sballarsi -, ma il dato di fatto è che molti di loro bevono tanto. Troppo. E cominciano a farlo sempre prima, addirittura a 11 anni, dato che ci mette al primo posto in Europa nella posizione poco invidiabile di nazione più precoce. I numeri più recenti dell’Istituto superiore di sanità (Iss) parlano di 700mila consumatori a rischio nella fascia d’età compresa fra gli 11 e i 17 anni, «un pianeta del tutto inesplorato», commenta il prof. Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio nazionale sull’alcol dell’Iss. Su di loro, gli under 18, si concentrano le preoccupazioni maggiori, anche se non si può dimenticare che dai 18 ai 25 anni ce ne sono altri 850mila di giovani potenzialmente problematici, cioè ragazzi che mediamente mandano giù più di due bicchieri al giorno (i maschi, per le femmine il parametro è un bicchiere quotidiano). C’è poi un mondo ancora più specifico che spesso si interseca con l’altro, quello dei "binge drinker", cioè di quanti consumano alcolici con lo scopo deliberato di ubriacarsi: cinque, sei bicchieri bevuti in un’unica occasione nello spazio di una-due ore, fino ad ammucchiare 60 grammi di alcol quando il fegato è in grado di smaltirne al massimo 6 in un’ora. Anche qui è un esercito, 900mila sotto i 25 anni, così suddivisi: 100mila fra gli 11 e i 17, 310mila fra i 18 e i 20 e quasi mezzo milione fra i 21 e i 25. 
«Il problema dell’alcol è che disinibisce, facendo sentire i ragazzi più sicuri e spavaldi - aggiunge Scafato -. E’ un lubrificante sociale e ha molto appeal fra i giovani proprio per questo; se bevono con questo obiettivo, però, la prima volta si euforizzano con un bicchiere e la volta successiva dovranno prenderne due per raggiungere la stessa sensazione, e così via, fino a inguaiarsi. E’ il meccanismo della tolleranza, lo stesso dell’eroina».
La distrazione degli adulti, spiega l’esperto, ha creato «una generazione chimica che ha elaborato ritualità precise nell’andare a bere»: si comincia col soft drink, poi si passa a birra o vino, spesso a buon prezzo e di scarsa qualità, si passa a bevande con superalcolici e infine, quando le forze si affievoliscono - tecnicamente «il down» - ci si tira su con gli energy drink. Di fronte a questa altalena in cui spesso e volentieri si insinuano le droghe comunemente dette, si risponde con «armi spuntate», del tutto inadeguate rispetto all’emergenza: «Solo un medico di medicina generale su tre sa che strumento usare per individuare un consumo problematico di alcol - dice Scafato -. E’ un semplice questionario di tre domande per capire quanto beve, con che frequenza e quante volte un ragazzo si è intossicato con alcolici. Stiamo spingendo per farne uno strumento di prevenzione». 
Sempre in materia di prevenzione, il medico insiste sulla necessità di «ostacolare gli happy hour, di non rendere gli alcolici più convenienti delle altre bevande e di ridurre l’aggressività del marketing». Un tasto dolentissimo, questo della pubblicità degli alcolici senza freni: «La diffusione dell’alcol fra i ragazzi va peggiorando perché c’è sempre più normalizzazione dell’uso. La pubblicità non dovrebbe appellarsi al successo sociale e sessuale associato al consumo, pratica proibita in Francia, oltre che dalle direttive Ue». Peccato che da noi ci si limiti al «bere responsabilmente», concetto del tutto fuori luogo con gli adolescenti, che per natura responsabili non sono, e che siano «gli stessi pubblicitari e produttori a regolamentare i contenuti degli spot». Che è un po’ come chiedere all’oste se il suo vino fa male.