il Giornale, 19 settembre 2019
Nasce il tribunale di Facebook
Non disperate. Nel regno di Facebook i banditi potranno ricorrere alla giustizia del re. I banditi sono quelli messi al bando dagli algoritmi o dalle segnalazioni dei «vicini di post», quelli esiliati per pensieri, parole opere e omissioni, quelli con il marchio di bugiardi o con la camicia nera. Tutti i cattivi insomma potranno avere una seconda possibilità. L’ha annunciato re Zuckerberg in persona.
Ci sarà una sorta di corte di appello, più o meno indipendente, a cui rivolgersi se siete stati sospesi o cancellati. I giudici all’inizio saranno undici, poi nell’arco di un anno l’Oversight board, come lo chiama Zuckerberg, sarà di quaranta persone. La carica dura tre anni. Chi li sceglie? Il re, naturalmente, che li stipendierà. Tutti, dice, personaggi di chiara fama.
È qualcosa di più di un collegio di probiviri. Il regno di Zuckerberg da ora in poi avrà una common law, non una Costituzione scritta, ma sentenze che segnano una rotta e orientano principi e valori. È un altro tassello della metamorfosi. Facebook sta sempre più diventando uno Stato privato. È qualcosa di diverso da una multinazionale. È una terra senza confini che comincia ad avere una costituzione, regole sociali, una moneta e una giurisdizione. I «cittadini» non lo sono per nascita ma per scelta. Si iscrivono e rinunciano con un contratto, che in genere nessuno legge, a una serie di diritti e prerogative. C’è la più classica cessione di potere in favore di un organismo più grande. In cambio di cosa? Di un’idea di socialità. La beffa è che vendi la tua identità, quello che sei, i tuoi dati più rilevanti, tutte le informazioni che ti riguardano, solo per stare in piazza. Racconti tutto di te: cosa mangi, come spendi i tuoi soldi, chi ami, come stai, se sei sano o malato, dove vai in vacanza e i guai che hai sul lavoro, chi sono e come stanno i tuoi figli, padri, madri, fratelli, parenti fino al terzo grado. È uno Stato virtuale che sa tutto dei propri sudditi. Non ha bisogno di poliziotti, perché i cittadini sono ben contenti di mettersi a nudo. In qualche modo ci siamo venduti l’anima. L’idea di essere spettatori e testimoni di tutto questo è affascinante. È come vedere in presa diretta la nascita degli Stati feudali. Qui, nel regno di Zuckerberg, non c’è democrazia. Non è una repubblica. Non è più ormai semplicemente un’azienda. Facebook assomiglia alla Pennsylvania, una delle colonie fondamentali per la nascita degli Stati Uniti d’America. Pennsylvania significa letteralmente i «boschi di Penn». Il quacchero William Penn era il fondatore e proprietario di questo territorio circoscritto tra i Grandi laghi e l’oceano Atlantico. È chiaro che ci sono differenze con Facebook. Penn ottene la concessione da Carlo II d’Inghilterra. Quella terra non era nata dal nulla e disabitata: c’erano gli irochesi, i Delaware e gli Shawnee. La Pennsylvania non ha la potenza e la forza di Facebook. Il principio di governo è però più o meno lo stesso. L’ammiraglio William Penn scriveva: «Lasciate che la gente creda di governare e sarà governata». Il proprietario terriero Penn sosteneva: «La saggezza delle nazioni risiede nei loro proverbi, che sono brevi e concisi». Il teologo Penn non aveva dubbi sul bene e sul male: «Il giusto è giusto, anche se tutti gli sono contrari; è lo sbagliato è sbagliato, anche se tutti sono per esso».
Mark Zuckerberg indica la sua visione del mondo. «Facebook cerca di dare alle persone una voce, così da connettersi e condividere idee ed esperienze. La libertà di espressione è sovrana, ma ci sono momenti in cui i contenuti possono essere in contrasto con autenticità, sicurezza, privacy e dignità». Nessuno è obbligato a risiedere nel regno di Zuckerberg, ma chi ci sta deve sapere che non è un cittadino ma un suddito. È giustizia feudale, come in una vecchia canzone di Fabrizio De André. «Impiccheranno Geordie con una corda d’oro. È un privilegio raro. Rubò sei cervi nel parco del re. Vendendoli per denaro».