Libero, 19 settembre 2019
È triste lasciare la direzione di un giornale
Caro Mario Calabresi, sto leggendo il tuo libro appena uscito, La mattina dopo, Mondadori. Quando l’ho preso in mano ero sospettoso, quasi infastidito, memore delle polemiche volgari tra me e te. Poi la curiosità è stata più forte della diffidenza e pagina dopo pagina sono arrivato a metà dell’opera. E devo dirti che mi sono ritrovato, commuovendomi, nella tua prosa rassegnata tuttavia non banale. Vi ho scorto dei sentimenti che non mi rendono tuo fratello, questo sarebbe troppo, ma uno che ti somiglia, nonostante tutto. Sono qui a dirti che capisco il tuo stato d’animo, il senso di vuoto che si prova allorché si è costretti a lasciare un posto di lavoro che ti sembrava eterno, tuo e di nessun altro. Ogni strappo, la morte di un amico o di un familiare, ti stordisce o peggio ti mutila. Vorrei consolarti, spero di riuscirci. A me non è mai capitato per pura fortuna di essere licenziato. Però ho lasciato spontaneamente, per nausea, alcune direzioni. Ricordo il dì in cui mi allontanai dal Giornale nel quale avevo sostituito Indro Montanelli, non tuo cugino. Dopo quattro anni di trionfi indimenticabili, raddoppio delle vendite, all’improvviso non ne potei più. Avevo voglia di aria fresca, di fare altro, ciononostante non sapevo cosa. Sloggiai lo stesso per riconquistare la mia libertà dalla rottura di scatole che comporta la responsabilità di un quotidiano. Allorché abbandonai il podio avevo una sola preoccupazione: farmi pagare una buona, anzi ottima, liquidazione. La manovra andò secondo i miei desideri: incassai quanto mi spettava. Il che attenuò il dolore provocato dall’allontanamento da via Negri, a Milano. La sera in cui, terminato il lavoro, svolto con la solita cura, raccattai le mie cianfrusaglie e mi tolsi dai piedi, percorsi il corridoio che portava all’ascensore a passo lento. Nessun collega, non uno, si affacciò dal proprio ufficio per salutarmi. Mi congedai in un silenzio cimiteriale. Giunto in portineria scoprii che non avevo più la macchina con l’autista che di norma mi accompagnava al ristorante o a casa. Non c’era un cane che mi degnasse di una stretta di mano. Il portiere, impietosito, chiamò un taxi, e mi porse un mazzo di rose rosse che uno sconosciuto o una sconosciuta mi aveva fatto recapitare. Ancora oggi mi interrogo su chi sia stato a compiere quel gesto gentile, forse amoroso. Salii sulla vettura. Il mio umore era quello di un soldato costretto alla resa. Faticai a trattenere le lacrime. Noi maschi ci vergogniamo a piangere e non ho mai capito perché. Questa è una confessione che non ho fatto neppure a mia moglie. La faccio a te perché, anche se non sei davanti a me, ti leggo dentro e comprendo il tuo tormento. È amaro lasciare la direzione di una testata, importante o meno che sia. È come trovarsi a piedi nudi su una strada ghiaiosa. Soffri e perdi il senso della esistenza. Sei scosso dall’istante stesso in cui all’improvviso hai perduto il timone. Compilare un quotidiano, scrivere articoli è come vivere due volte. Un lavoro poi lo trovi ugualmente e riesci a campare abbastanza bene, però tutto è diverso: sei smarrito quale pugile finito ko. Il tempo è un medico poco pietoso e non ti risparmia uno strazio lancinante.
DIVERGENZE CON L’EDITORE
Dico questo per solidarietà e comprensione. Immagino cosa sia accaduto nella tua testa che in certe circostanze non può che essere confusa. Sostieni giustamente che la tua visione sul modo di fare il giornale e il suo futuro era diversa da quella dell’editore. Succede quasi sempre che tra direttore e padrone ci siano delle divergenze. Il secondo magari non ha ragione però impone la sua volontà in quanto il denaro è suo e non del cronista. E questi è un dipendente di lusso ma pur sempre un dipendente. In altre parole noi siamo impiegati, sebbene ben pagati, e obbligati ad adeguarci alla realtà che non si adatta affatto alle nostre idee magari giuste. Il cinismo e la crudeltà dei signori proprietari dei quotidiani sono incrementati dalla loro stessa arroganza, tutta roba dura da contrastare. Quando essi si scatenano su di noi, che abbiamo dato l’anima per essere graditi, non abbiamo difese se non il diritto di fare valere il contratto. Se quello che hai firmato nell’attimo dell’assunzione ti tutela finanziariamente, sbatti la porta con disinvoltura, viceversa rimani col cerino in mano. E la tua rabbia cresce a dismisura. Io ho sempre badato al quattrino perché è l’unico metro di misura per valutare la qualità del lavoro.
IL SUCCESSO E LE SCUSE
Per fortuna non ho bisogno di soldi, e ciò mi permette di pretenderli quando mi spettano. Servono a te e alla tua famiglia. Poche balle. Impadronirsi di una direzione non è facile, ma lasciarla è difficilissimo in base al principio che uscire di scena comporta uno sforzo maggiore rispetto a quello dell’entrata. Tu ti sei defilato con eleganza maggiore rispetto a De Benedetti (mi è simpatico e lo stimo) che ti ha spinto alla porta. Te ne do atto. Anche se non dimentico il livore maturato in te allorché ti definii l’orfano del commissario assassinato dai tuoi amici di sinistra. Modestamente pure io rimasi orfano a sei anni ma non per questo me ne vanto. Per scherzare, affermo spesso che avere perso il padre mi ha agevolato: invece di avere due genitori che mi rompevano le balle ne avevo uno solo, mia madre, poveraccia. Il giorno che mi scrivesti che nella mia lunga vita professionale ero stato a capo soltanto di giornali di serie B, ti risposi che forse era così, tuttavia li avevo portati in serie A, mentre tu hai guidato due fogli di serie A e li hai portati entrambi in serie B. Era una battuta polemica e nulla più. Ti chiedo scusa sicuro che farai la stessa cosa con me. Se non accadrà, pazienza. Intanto ti auguro che il libro che hai dato alle stampe incontri il favore del pubblico e ti dia una boccata di ossigeno, indispensabile per affrontare il domani. A me rimproverano di avere avuto un successo facile. Replico, se il successo fosse facile lo avrebbero tutti, perfino i miei detrattori.