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 2019  settembre 19 Giovedì calendario

I bersaglieri verso Porta Pia: "Fermate Garibaldi"

«Raccomando massima sorveglianza Garibaldi». Nell’Archivio Storico di Casale Monferrato, tra i documenti radunati nel 1982 per la mostra del centenario della morte dello statista Giovanni Lanza, c’è la copia del documento che più di ogni altro spiega la difficile situazione del Regno d’Italia alla vigilia della Presa di Porta Pia avvenuta il 20 settembre di 149 anni fa. L’originale si trova a Roma nell’Archivio Centrale dello Stato e ne esiste un duplicato anche all’Archivio Storico della Camera dei deputati, nei verbali dell’Ufficio della Presidenza. Dopo la morte del casalese, durante il ventennio fascista, i documenti furono riordinati nell’Archivio De Vecchi di Val Cismon. L’atto in questione fu trascritto, nel 1938, dal quadrumviro della marcia su Roma Cesare Maria De Vecchi, che non fu certo un raffinato archivista e confuse la lettura dell’originale. Chi lo ha citato si è sempre attenuto all’interpretazione di De Vecchi, sbagliando. 
Il testo esatto, che accende una nuova luce sulle complesse relazioni fra i Savoia e l’eroe dei due mondi, recita appunto «Raccomando massima sorveglianza Garibaldi». E continua: «Sua presenza Continente causerebbe gravi imbarazzi Governo. Partecipi pure Comandante Nicastro questa raccomandazione. G. Lanza». È un dispaccio telegrafico dalla capitale del Regno d’Italia, Firenze, dell’allora Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Giovanni Lanza al Prefetto di Sassari (N. 2182 bis 8 settembre 1870). Da Firenze, negli stessi giorni, Lanza raccomandava ai prefetti di Palermo e Napoli, con la stessa premura, di controllare Mazzini. In agosto, addirittura, scriveva al prefetto di Genova per un eventuale arresto del patriota. 
Cos’era successo? Nove anni dopo l’Unità, Roma e il Papa erano difesi dai francesi. Garibaldi aveva tentato due volte nel 1867, a settembre e novembre, di conquistare la Città Eterna con una rivolta della popolazione. Nella prima occasione fu arrestato e riuscì a fuggire dalla prigione. Nel secondo tentativo, all’inizio di novembre, a Mentana, i garibaldini furono massacrati dai soldati francesi, dotati del fucile Chassepot a retrocarica. Garibaldi fu arrestato nuovamente e rinchiuso a Varignano fino al 25 novembre. 
Dopo aver lasciato la carica di deputato, il Generale dalla camicia rossa tornò nel suo buen retiro di Caprera. Nove anni dopo il 1861, l’Impero francese di Napoleone III entrò in guerra con la Prussia di Bismarck, alleata agli altri Stati tedeschi. Il 2 settembre 1870, i francesi furono sconfitti dai tedeschi a Sedan. Nasceva il Secondo Reich. Per il Regno d’Italia era l’occasione di conquistare Roma, difesa soltanto dall’esercito pontificio. 
Il governo italiano era presieduto da Giovanni Lanza, che non voleva uno scontro fratricida con Garibaldi. Gli altri uomini della «Destra Storica», in primis il «prussiano» Sella, avrebbero voluto addirittura Re Vittorio Emanuele II al comando dell’esercito, facendo strage di «papalini». Lanza, lottando con gli stessi uomini del suo governo, preferì fare di testa sua e controllò astutamente la situazione con i prefetti, raccomandando ai suoi uomini la massima attenzione sul partito dei repubblicani. Nel 1870, Mazzini, eroe del 1849, non prese nemmeno in considerazione l’ipotesi di organizzare una Repubblica romana, per non guastare il ricordo di ventuno anni prima, e restò a Genova, ma perdendo – superato dall’iniziativa vincente di Lanza - l’ultimo appello largamente condiviso con cui progredire alla causa italiana nella Penisola.
L’Urbe in mano del Papa era un rimprovero alla monarchia e una speranza per il partito repubblicano. Garibaldi lo sapeva e dopo la sconfitta francese di Sedan scalpitava per conquistare Roma. Lanza era disposto ad approfittare di ogni circostanza per risolvere la questione romana, escludendo però il ricorso a mezzi rivoluzionari. Dinanzi al pericolo di colpi di mano di matrice repubblicana, il politico monferrino si cautelò inviando un forte contingente sul confine del Lazio al comando di Raffaele Cadorna.
Il 20 settembre 1870 l’artiglieria del Regno d’Italia tuonò su Roma e sbriciolò le mura di Porta Pia. Con limitate perdite, in poche ore, entrarono i bersaglieri a Roma. Nella breccia di Porta Pia morì il maggiore dei bersaglieri Pagliari, ma l’iniziativa di Lanza fu un grande successo militare. Ai patrioti più combattivi, tuttavia, l’opera da eminenza grigia di Lanza diede l’impressione di essere stata l’iniziativa di un uomo incerto fino all’ultimo, meritando i versi incisivi di Carducci: l’Italia grande e una, che andava nottetempo a Roma «perché il dottor Lanza teme i colpi di sole». 
In realtà Lanza aveva agito intelligentemente, curando le relazioni internazionali e assicurandosi il sostegno dell’alleato prussiano. Gestì al meglio la politica interna della Penisola, compiendo l’Unità agognata da Cavour, strappando al potere del Papa-Re Roma capitale. La Presa di Roma fu salutata come il compimento della lotta risorgimentale. L’opzione piemontese al Risorgimento prevalse su quelle democratiche dei vari Mazzini, Cattaneo e Garibaldi, grazie all’abilità di una nuova classe politica, nata sotto Re Carlo Alberto, rappresentata da personaggi considerati ingiustamente minori dalla storiografia, come Giovanni Lanza. 
Il Presidente del Consiglio di Casale Monferrato morì a Roma, il 9 marzo 1882. 
Lo stesso anno di Garibaldi, che si spegneva nella sua isola il 2 giugno. Nonostante l’aut-aut per Roma e la sorveglianza costante di Lanza, alla fine del 1870, il Generale dalla camicia rossa andò in soccorso dei francesi, che si organizzarono in repubblica, e strappò ai prussiani, il 23 gennaio 1871, con il suo volontario esercito dei Vosges, la bandiera del sessantunesimo reggimento. Garibaldi fu eletto deputato all’Assemblea Nazionale di Bordeaux, dove fu elogiato da Victor Hugo per il suo coraggio.