Sarebbe quindi il momento ideale per avviare una politica di redistribuzione senza più il vincolo assillante del debito. Così lo spread, i miliardi della manovra e il rapporto deficit/Pil sono diventate le principali parole nel vocabolario del dibattito sulla politica economica. Ma questa narrativa è frutto di una visione distorta della realtà, frutto di una lettura squisitamente politica dei fenomeni economici.
Prima di discutere di redistribuzione, e di come finanziarla, il governo dovrebbe preoccuparsi di come creare reddito. Il diffuso malessere sociale è spiegato dalla risibile crescita del reddito pro-capite degli italiani negli ultimi 10 anni (+5,5% nel periodo, da 27.500 a 29.000 euro), specie al confronto del +38% del decennio precedente. Ma che comunque non tiene il passo dei paesi europei anche da prima della grande crisi: nel 1998 il nostro reddito era il 108% della media dell’Eurozona, sceso al 98% nel 2008 e al 90% l’anno scorso.
Un declino costante, dunque. E gli italiani, come ovunque, votano col portafoglio. Le politiche economiche redistributive, comunque finanziate e per quanto socialmente desiderabili, non aumentano la capacità del Paese di produrre reddito. Per farlo ci vogliono imprese che crescono, investono e fanno profitti; e nuove iniziative imprenditoriali. Soprattutto se sotto il cappello nobile della redistribuzione del reddito si mascherano interventi a favore di quegli interessi, ceti, professioni, comunità, gruppi sociali da cui dipendono i voti del governo di turno.
Quota 100 non è stata una riforma organica del sistema pensionistico per introdurre flessibilità in uscita, nel rispetto della sostenibilità del sistema, ma solo un modo per accrescere consenso presso gli elettori della Lega; che si è aggiunta alla decina di modalità di uscita anticipata decretate dai precedenti governi.
Il reddito di cittadinanza (e ora il salario minimo) non sono una riforma organica del mercato del lavoro, e neanche del welfare , ma un modo per acquisire consensi mantenendo una promessa elettorale del M5S. La flat tax della Lega, sbandierata come riforma tributaria, di fatto era uno sgravio fiscale a beneficio del tipico elettore leghista del nord.
Sembra che il nuovo governo la voglia sostituire con una riduzione dei contributi a favore esclusivo dei lavoratori dipendenti: intervento propugnato dai sindacati che lo sostengono. Lo stesso vale per le decine di deduzioni e detrazioni fiscali che si sono sedimentate nel tempo, e delle centinaia di sussidi, incentivi, facilitazioni a favore di settori o imprese che nessuna spending review riuscirà mai a spazzare via perché alla base del consenso politico. Una lista, temo, destinata ad allungarsi anche col nuovo esecutivo.
Lo Stato può sostenere la crescita del reddito con gli investimenti pubblici. Che non vuol dire mantenere in vita imprese senza futuro, rispolverando la tutela del posto fisico di lavoro stile anni ’70, ma tutelare l’occupazione favorendo lo spostamento delle risorse verso i settori a maggiori prospettive, minimizzando i costi sociali.
L’Italia ha ancora troppe risorse ancorate in settori in declino e un modello economico focalizzato su manifattura ed esportazioni che mostra le crepe, come dimostra la crisi della Germania. Al contrario del modello francese oggi vincente, che ha puntato su tecnologia e servizi, i settori a maggior crescita.
Non tutti gli investimenti pubblici necessariamente favoriscono la crescita. Occorre concentrarsi su quelli che hanno un’esternalità positiva, ovvero promuovono e sostengono l’iniziativa privata, soprattutto se coordinati su specifici temi. Un solo esempio: il turismo. Attiriamo circa 32 milioni di turisti stranieri rispetto agli 83 milioni di Francia e 75 di Spagna, in un settore che pesa il 6% del Pil contro il 7% e 11% di Francia e Spagna. Investimenti pubblici in aeroporti, risorse idriche, qualità dell’ambiente, valorizzazione dei siti artistici nelle zone ad alto potenziale turistico avrebbero pertanto un fortissimo effetto volano sulle iniziative imprenditoriali nel settore.
Anche se il miglior investimento pubblico rimane l’aumento dell’efficienza e della qualità dei servizi pubblici erogati, che però non comporta alcuna spesa e quindi non serve a creare consenso.
Pure l’idea che la mancata crescita sia colpa di mercati finanziari e dell’Europa non regge il confronto coi dati: la Bce e le banche italiane, coi finanziamenti sussidiati della Banca centrale, hanno acquistato nell’ultimo decennio ben 552 dei 637 miliardi di aumento dello stock di titoli di Stato, garantendo così la nostra solvibilità a fronte delle vendite degli stranieri. Quel che è mancato semmai è il risparmio italiano che, nonostante le sue dimensioni ragguardevoli, detiene appena il 27% del debito (contro il 34% degli stranieri). Adesso la Bce ricomincia ad acquistare debito pubblico. Ma se il governo non riconquista presto la fiducia dei risparmiatori, specie italiani, evitando la spesa a caccia del consenso, l’ombrello della Bce è destinato a durare poco. E a Roma, sarà un altro giro di giostra.