il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2019
Che cos’è l’Opec
Nel mondo del petrolio d’oggi in cui è il mercato (specie la finanza speculativa) che fa i prezzi, con livelli dimezzati rispetto a un quinquennio fa, in un equilibrio reso instabile dalle crescenti tensioni geopolitiche e nella prospettiva di una ‘transizione energetica’ che dovrebbe ridurne l’importanza, che ruolo vi è ancora per l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (Opec), istituita a Baghdad il 14 settembre 1960?
Alla risposta molto può contribuire il bel libro di Giuliano Garavini The Rise & Fall of Opec (Oxford press). Suo intendimento è di riconoscere all’Organizzazione di Vienna l’importanza che ha avuto come una delle “forze trainanti della storia del ventesimo secolo” superando le banalizzazioni che ne riducevano il ruolo alla sola massimizzazione della rendita petrolifera.
L’Opec è stata altro. La cooperazione internazionale che avviò – “nell’interazione triangolare tra capitalisti”, compagnie petrolifere, “Stati produttori”, petrostati la cui sopravvivenza era legata ai proventi del petrolio, e “Stati consumatori” – era volta non tanto a riequilibrare il rapporto diseguale con le compagnie petrolifere, ma ancor prima a riconoscere agli Stati produttori una piena sovranità sullo sfruttamento delle loro risorse naturali. Principio che sarà affermato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite due anni dopo, il 14 dicembre 1962, nella Risoluzione 1803 “Dichiarazione sulla sovranità permanente sulle risorse naturali”, che sanciva il diritto dei popoli e delle nazioni alla piena sovranità sulle loro ricchezze naturali, sì da poterle sfruttare nell’interesse del loro sviluppo e benessere. Diritti e interessi che rientravano nel principio dell’autodeterminazione dei popoli sancito giuridicamente nel 1945 dalla Carta delle Nazioni Unite, ma che erano del tutto estranei al sistema delle concessioni che regolava lo sfruttamento del petrolio, riconoscendo al “petrocapitalismo angloamericano” un potere assoluto nei Paesi che li ospitavano. Concessioni che potevano considerarsi più imposte che negoziate e strumenti di trasferimento della sovranità nazionale a terzi soggetti così da divenire simbolo dello sfruttamento ‘post-coloniale’ degli Stati produttori.
Solo la lungimiranza di Enrico Mattei seppe rifuggirne, con schemi avanzati di partnership con gli Stati produttori che ne riconoscevano appieno i diritti, così da divenire riferimento delle loro future politiche. Secondo Garavini, l’Opec ha rivoluzionato le relazioni Nord-Sud del mondo (non solo nel petrolio); modificato se non capovolto i rapporti negoziali tra detentori delle risorse e paesi ricchi che su di esse avevano basato (e basano) il loro sviluppo; consentito agli Stati di assumere il pieno controllo delle loro risorse e decidere dei loro destini. Un ruolo, quindi, non riducibile alla pur dominante valutazione che ne è stata data di Oil Cartel, che ha avuto solo in un breve periodo (1982-1985) nell’illusorio tentativo di arginare il crollo dei prezzi originato dai loro vertiginosi aumenti durante l’oil revolution degli anni Settanta.
Ben altro e maggior potere avevano avuto in precedenza le grandi compagnie petrolifere col controllo (quasi) monopolistico di tutte le fasi dell’industria petrolifera mondiale (esclusi Stati Uniti e Unione Sovietica) che consentiva loro di gestire congiuntamente investimenti, produzione, prezzi, profitti. Forti anche del ‘rapporto simbiotico’ col governo americano che garantiva loro protezione in cambio della piena sicurezza delle forniture.
La minuziosa ricostruzione che Garavini fa delle vicende interne ai singoli ‘petrostati’ e del loro intreccio con le strategie delle compagnie e delle politiche governative è encomiabile e avvincente. Il filo di una storia, tornando alla domanda iniziale, che non può dirsi interrotta pur se è innegabile la parabola discendente dell’Opec: per il potere assunto dal mercato nella fissazione dei prezzi; per il ridursi della sua quota sulla produzione mondiale; per le innovazioni tecnologiche (shale oil) che hanno fatto degli Stati Uniti il primo produttore al mondo. Non ultimo: per la profonda lacerazione politico-militare che li separa. Nel mercato del petrolio – ancora pivot, checché se ne dica, del sistema energetico mondiale, con una produzione raddoppiata nello scorso mezzo secolo e ancora ben lontana dal declinare – la stabilità resta un valore: per l’intero sistema economico mondiale prima ancora che per stati produttori, consumatori, compagnie. L’Opec negli ultimi anni se ne è fatta carico con altri paesi (specie Russia) con risultati apprezzabili.
Il futuro è molto incerto e critico: di fronte alle intenzioni (pur sinora più verbali che reali) del mondo intero di abbattere nella lotta ai cambiamenti climatici il ruolo ancora dominante del petrolio. Una strada lunga se si tiene conto che la sua quota (34%) resta maggioritaria nell’insieme dei consumi mondiali di energia ancora dominati dalle fonti fossili (85%). Le conseguenze nel lungo termine potrebbero risultare drammatiche sia per gli Stati Opec che ancora dipendono dalle entrate petrolifere (una popolazione sui 500 milioni di persone, di cui 326 in paesi poveri) che per gli Stati, specie africani, che dalla povertà potrebbero uscire sfruttando le risorse di petrolio e metano da poco scoperte.
La cooperazione internazionale attraverso “una qualche forma di regolazione globale del petrolio”, scrive in chiusura Garavini, resta quindi essenziale per governare la ‘transizione energetica’ cercando di minimizzarne il costo per le popolazioni che sul petrolio vivono e puntando a quei compromessi che consentono all’umanità di fare un qualche passo in avanti.