il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2019
Dove finiscono i 300 miliardi investiti dalla Cina in Europa
I treni arrivano di notte, serpenti di 600 metri con scritte in cinese e container carichi di smartphone, televisori, lavatrici, vestiti. Hanno percorso 11 mila chilometri dalla Cina al “Duisburg Intermodal Terminal”, il porto intermodale più grande al mondo, 60 mila metri quadri di spazio commerciale sulle rive del Reno, nel cuore della Germania. Siamo a Duisburg, capolinea della “Nuova Via della Seta”. Trenta treni a settimana dalla Cina, risparmiano tre settimane rispetto a un viaggio in nave fin qui, dove tra camion e merci che vanno e vengono, inizia il viaggio di Investigate-Europe negli investimenti cinesi in Europa.
Milletrecento chilometri più a sud-est, in Croazia, lo Stato cinese sta realizzando uno dei sogni della popolazione locale: costruire un ponte (detto di Sabioncello) di 2,5 km per arrivare a Dubrovnik bypassando la Bosnia Erzegovina attraverso la baia di Mali Stom. Operai cinesi lavorano giorno e notte per scavare in mare la base dei pilastri a 120 metri di profondità. La società responsabile dell’opera, la China Communication Construction Company, importa 60 mila tonnellate di acciaio dalla Cina, ha vinto la gara proponendo 100 milioni in meno delle concorrenti europee, l’italiana Astaldi e l’austriaca Strabag. “Il miglior risultato possibile con il minor prezzo e nel più breve tempo”, dice radioso il capo del governo locale, Nikola Dobroslavic.
Anche l’antico Palazzo Loreto, nel cuore di Lisbona, è occupato dalla Cina. Il gruppo Fosun ha messo dentro l’edificio settecentesco il quartier generale europeo dei suoi investimenti, che spaziano dalle assicurazioni con la compagnia “Fidelidade” alla banca BCP, dal tour operator Thomas Cook al brand di moda Tom Tailor e la banca privata tedesca Hauck & Auffhäuser. Non lontano, ci sono gli uffici di State Grid e Three Georges, due società pubbliche cinesi che nel 2012, quando il Portogallo era sotto la supervisione della Troika, hanno comprato le società pubbliche dell’elettricità. Aziende del Sol Levante, insomma, quasi sempre pubbliche o alimentate dallo Stato che si stanno impadronendo di asset strategici dell’Ue. Finora hanno investito 300 miliardi di euro, ma ogni anno la quota aumenta di 10-20 miliardi, come registra l’American Heritage Foundation che aggiorna di continuo una banca dati sugli investimenti cinesi sopra i 100 milioni di dollari.
Dal 2015, poi, il presidente Xi Jimping ha cambiato rotta e decretato la fine degli investimenti a pioggia nel Vecchio continente in favore di operazioni per sviluppare industria di qualità, nuovi brand e l’export cinese. “Non è solo una scelta del governo – spiega Filippo Fasulo, direttore dello studio annuale sulla Cina alla Fondazione Italia-Cina, a Milano – ma un’esigenza di sopravvivenza: se la Cina vuole mantenere gli obiettivi di crescita e migliorare le condizioni della sua popolazione, deve convertirsi a un modello economico incentrato su un alto valore aggiunto”.
Nel piano “China 2025” sono stati quindi individuati dieci settori strategici su cui puntare gli investimenti nel mondo. “Il Made in China non sarà più sinonimo di bassa qualità – continua Fasulo – ma di prodotti sofisticati, al passo con quelli dei colossi nostrani. Per questo Trump ha avviato una guerra commerciale, che in realtà è tecnologica, con la Cina”. E l’Europa ne è il campo di battaglia, come dimostra l’affare Huawei. La società tecnologica cinese solo in Germania ha investito 2,4 miliardi di euro e assunto 28 mila persone. In Italia ha annunciato 3 miliardi d’investimenti nei prossimi 3 anni. Trump ha chiesto ai partner europei di smettere di fare affari con Huawei (in nome del rischio di spionaggio), poi ha minacciato di chiudere le importazioni alle società europee dell’iTech che fanno affari con Huawei. L’Europa è insomma a un bivio, come dice l’economista francese Jean Pisani-Ferry: “L’Ue deve difendere la propria indipendenza economica, riuscendo a rimanere legata sia agli Usa che alla Cina”. E per farlo deve cominciare a parlare anche a Pechino con una sola voce.
Un anno fa, ad esempio, l’allora presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, in un discorso sullo Stato dell’Unione, aveva definito “scorretta” la concorrenza tra Cina e Europa. “Il governo di Pechino – aveva detto – offre unilateralmente vantaggi ai suoi investitori con sussidi e agevolazioni”. A marzo, il presidente francese Emmanuel Macron rincarava la dose: “Il tempo dell’innocenza verso la Cina deve finire”. Qualche giorno dopo, la Commissione pubblicava un documento strategico in cui la Cina era definita, per la prima volta, “un rivale sistemico”. Eppure era stata proprio la Troika, a facilitare ai governi dei Paesi in crisi come Grecia e Portogallo, la vendita delle imprese pubbliche ai cinesi. Ora il rischio è che tra cinque-dieci anni le infrastrutture europee siano dipendenti da uno Stato straniero, non democratico, che controlla, direttamente o indirettamente, le sue imprese. Per correre ai ripari, ad aprile è stato approvato lo screening mechanism a cui il 1° governo Conte ha votato contro: un sistema di rendicontazione a Bruxelles degli investimenti stranieri. Peccato sia volontario e poco efficace.
Per l’industria, invece, i capitali cinesi sono una manna dal cielo soprattutto in un’Europa a crescita asfittica (anche per colpa delle regole di austerità) che fatica a liberare investimenti per le aree in crisi (la “Nuova via della Seta”, mille miliardi di dollari d’investimenti in tutto il mondo, sta permettendo ai Paesi dell’Est – e presto anche all’Italia – di completare le infrastrutture ferme da decenni per mancanza di soldi). Nello storico quartiere della Bicocca, a Milano, è difficile trovare qualcuno che si lamenti dell’arrivo dei cinesi. La Pirelli, quinta produttrice al mondo di pneumatici, è stata venduta nel 2015 al colosso pubblico cinese ChemChina per 7,1 miliardi di euro con cui ha acquisito il 45,52% del gruppo. Da allora le cose vanno sempre meglio. Crescita, investimenti in ricerca e una strategia d’investimento consolidata su pneumatici d’alta gamma. “Non ho mai visto tanti investimenti in ricerca – racconta un operaio specializzato, nel palazzo tutto nero, proprio come un pneumatico – si assume nuovo personale, si comprano macchinari costosi, il motore gira”. E la presenza cinese? “Abbiamo visto il presidente di ChemChina solo una volta, nel 2015 è venuto a farci gli auguri di Natale. Poi più nessuno. Tutto passa da mani italiane”. In effetti la governance della società è rimasta finora al Ceo Marco Tronchetti Provera e al suo board italiano. Nell’accordo di vendita, è previsto che la sede resti a Milano, che il Ceo sia Tronchetti (fino al 2023) e che per trasferire un brevetto in Cina sia d’accordo il 90% degli azionisti. Ma allora, qual è la strategia di ChemChina? “Imparano il mestiere – spiega il tecnico – un giorno produrranno a casa loro. È un patto con il diavolo, ma prima che il mercato delle auto di lusso si fidi di un pneumatico made in China passerà molto tempo”. “Abbiamo evitato di vendere alla concorrenza – spiega nel sito di Pirelli, Tronchetti Provera – con il rischio di spezzettare l’azienda”.
Stessa impressione in Norvegia, dentro la società Elken (metalli) acquistata da ChemChina nel 2011. Marianne Faeroyvik, rappresentante dei sindacati, non ha dubbi: “L’arrivo dei cinesi è positivo per i nostri 6.200 impiegati”. Stesso iter, nessun cinese nei corridoi, continuità nella governance e pioggia d’investimenti. La Elken è entrata in Borsa nel 2018. Ma il colpo più grosso ChemChina l’ha sferrato in Svizzera dove battendo la concorrenza di Monsanto, Basf e Dow Chemical, si è aggiudicata la società di agroalimentare Syngenta, offrendo agli azionisti 5 miliardi in più, cash.
“Tutto questo è possibile perché dietro gli acquirenti cinesi di una società europea si nasconde lo Stato cinese. Ecco perché possono offrire di più rispetto a un concorrente”, si legge in un rapporto del ministero dell’Economia tedesco del 2017. Ma, seppur sia stato provato che lo Stato cinese offra ampie deduzioni fiscali alle sue imprese di punta e che investa miliardi in Ricerca e Sviluppo di settori chiave, Investigate-Europe non ha trovato prove di sovvenzioni pubbliche agli investimenti in Europa. Solo sospetti. A Berlino, il capo economico dell’ambasciata cinese, Wang Weidong, parla di un “grande equivoco”, sostiene che le loro imprese s’indebitino sul mercato come le altre e assicura che la Cina sta aprendo i suoi mercati alle società europee. “È questione di tempo – dice Wang, che ricorda come a giugno nuovi settori come la proprietà dei cinema, le esplorazioni per petrolio e metalli e le consulenze finanziarie, siano state aperte alla concorrenza europea –. Invece, qui in Germania molti settori strategici restano chiusi alle imprese cinesi in modo arbitrario”. Sempre in Germania, all’Università di Kassel, l’economista Shuwen Bian ha studiato 160 acquisizioni cinesi in Europa. La sua conclusione non lascia dubbi: “Questi investimenti sono finanziati con fondi sovrani pubblici e privati, lo Stato è coinvolto, ma come un normale azionista che un giorno venderà i suoi asset a un prezzo maggiore”.