Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2019
Cos’ha fatto e cosa lascia Giovanni Castellucci
Da Autostrade ad Atlantia, con 14 bilanci firmati da ceo. Conti che hanno visto i ricavi salire da 3 miliardi, tutti o quasi in Italia, a 11,34 miliardi, pro-forma, i debiti balzare da 9 a 38 miliardi e la cedola crescere da 0,62 euro a titolo a 0,9 euro. Numeri, semplici numeri, che raccontano da un lato la parabola di Giovanni Castellucci, ormai ex amministratore delegato di Atlantia, e dall’altro la trasformazione, avvenuta tra il 2006 e il 2018, di una compagnia prima prettamente italiana e ora punto di riferimento globale del settore infrastrutturale. Un punto di riferimento che ha saputo moltiplicare il fatturato ma che, almeno sulla carta, non ha fatto altrettanto con gli investimenti: erano 961 milioni i denari messi sul piatto nel 2006 da Autostrade per l’Italia mentre nel 2018 l’intera Atlantia (6,9 miliardi di ricavi considerato il contributo parziale di Abertis) ha speso 1,12 miliardi.
Di qui gli attacchi che spesso hanno preso di mira l’azienda, colpevole, secondo il pensiero diffuso, di non investire a sufficienza nella rete. Accuse che la compagnia ha sempre respinto ricordando che ogni centesimo sborsato era frutto di un piano preciso, di un programma condiviso con le istituzioni. Che non sempre, però, è stato rispettato alla lettera. La burocrazia, si è detto. Ora, dopo la tragedia del Ponte Morandi e gli ultimi sviluppi dell’inchiesta bis della Procura di Genova, tutto appare sotto una luce diversa. Anche la stessa ascesa del manager storico della galassia Benetton. Entrato nell’orbita di Ponzano Veneto nel 2001 come direttore generale dell’allora Autostrade, che all’epoca era una compagnia di fatto quasi esclusivamente concentrata sull’Italia con in portafoglio circa 3 mila chilometri di rete a pedaggio, era il secondo di Vito Gamberale, dominus per diversi anni delle attività in concessione della dinastia trevisana. Che, però, non ha esitato a cambiare cavallo quando, complice lo scontro con il ministro delle Infrastrutture del tempo Antonio Di Pietro, è fallito il primo tentativo di aggregazione con Abertis. Era il 2005 e Castellucci ha avuto campo aperto per completare l’ascesa al vertice. Scalata che di fatto ha coinciso con un deciso cambio di passo del gruppo autostradale. Già nel 2006 la vecchia Autostrade era stata ridenominata Atlantia nell’ottica di dare alla compagnia una visione internazionale slegata a quelle che erano le criticità connesse alla forte concentrazione sul paese. La volontà era quella di ampliare il più possibile il portafoglio per evitare di avere come unico interlocutore Roma. E così, a partire da quell’anno, la società ha iniziato un processo di diversificazione geografica acquisendo la gestione di circa 2 mila chilometri di autostrade a pedaggio in Brasile, Cile, India e Polonia. Un passaggio che subito si è fatto sentire a livello di geografie coperte ma che ha inciso poco sui numeri e che nella dinamica generale ha rappresentato solo un assaggio di tutto quanto è stato poi messo in cantiere. Il salto dimensionale, piuttosto, ha iniziato a delinearsi nel 2013 quando la compagnia è entrata nel settore aeroportuale per gestire i due scali di Roma di Fiumicino e Ciampino. Presenza poi consolidata nel 2016, con l’acquisizione di Aéroports de la Côte d’Azur, la società che controlla gli scali di Nizza, Cannes-Mandelieu e Saint Tropez. È stato poi il turno del 15,49% di Getlink, la holding che controlla l’Eurotunnel. Fino all’operazione finale, quella che ha segnato la svolta definitiva: l’accordo con Acs per la spagnola Abertis che l’ha riportata, peraltro, nel settore costruzioni con una partecipazione rilevante in Hochtief (il 23,9% su cui però ha stipulato un collar per l’8%)
Con l’acquisizione, perfezionata a ottobre 2018, Atlantia è diventata leader mondiale nelle infrastrutture di trasporto con circa 14 mila chilometri di autostrade in concessione e una presenza in 23 paesi. Tutto questo, stando al bilancio pro-forma del 2018, ha spinto i ricavi a 11,34 miliardi e il margine operativo lordo a 6,7 miliardi. Ancora una volta l’Italia è centrale poiché genera il 45% dell’ebitda ma solo qualche mese prima il paese valeva ben l’86% della marginalità. Nel mentre, però, il debito è balzato a 38 miliardi dai 9 miliardi del 2006. Un incremento che, a prescindere dalla sostenibilità, garantita dall’ebitda elevato, ha legato il gruppo, oltre che agli umori di Roma, anche alla propensione delle banche finanziatrici.