La Stampa, 18 settembre 2019
Dna, siamo figli delle steppe
L’analisi del genoma è il futuro, ma anche il passato remoto. Un viaggio all’indietro nel tempo che può innescare una reazione a catena. «Ritorno al Futuro» docet, con ripercussioni sul nostro presente.
In questo senso si può capire come le scoperte del più grande studio mai effettuato sul Dna antico umano siano molto importanti e possano avere vaste ricadute non solo culturali, ma anche politiche. Un progetto ambiziosissimo partito dalla Harvard University anni fa e che ha coinvolto i gruppi di archeo-genetisti più qualificati al mondo: loro hanno fornito campioni di ossa umane antiche, di cui studiare il Dna, compreso un team italiano dell’Università di Padova e l’Ismeo di Roma, che da sempre ha concentrato le sue missioni archeologiche in una vasta regione lungo i confini tra Iran, Pakistan e India.
I primi agricoltori
La ricerca in questione si intitola «The formation of human populations in South and Central Asia»: pubblicata da «Science», ha indagato sostanzialmente due delle ipotesi più rilevanti nella storia dell’uomo. «Da un lato - ci spiega il professore dell’Università di Padova a capo del progetto, Massimo Vidale - l’abbandono nella preistoria dell’Eurasia meridionale (dal Mediterraneo all’Asia centrale e all’India), circa 12 mila - 10 mila anni fa, dei modi di vita basati su caccia e raccolta, l’avvento della pastorizia e dell’agricoltura, lo sviluppo di villaggi sedentari e poi delle città. Dall’altro, negli ultimi 4 mila anni, la diffusione delle lingue indo-europee. Quello che si voleva capire era se questi cambiamenti fossero avvenuti per grandi migrazioni oppure per scambio di idee e l’impatto indiretto di nuove culture».
Per trovare una risposta è stato analizzato il Dna di 524 individui, appartenenti a diverse antiche popolazioni euroasiatiche e questo è stato studiato insieme con 269 nuove datazioni al radiocarbonio effettuate sulle ossa ritrovate. «I dati confermano che la più grande rivoluzione dell’umanità nasce tra l’Anatolia (l’attuale Turchia) e il Vicino Oriente, le cui popolazioni smisero definitivamente di spostarsi come nomadi, costruendo villaggi e un’economia basata sulla coltivazione. Quindi gli agricoltori neolitici europei discendono da lì e rivelano che parte della stessa ascendenza, nello stesso periodo, si ritrova nei primi agricoltori dell’Altopiano Iranico e dell’Asia Centrale. Ciò dimostra che la diffusione dell’agricoltura neolitica mediorientale corrispose a migrazioni di genti che si mescolarono a più riprese con diverse popolazioni locali».
In un certo senso - aggiunge - quello che emerge combacia e conferma il modello di Luigi Luca Cavalli-Sforza di diffusione a ondate, almeno per quello che riguarda l’espansione verso Ovest, ma ricostruisce in maniera più completa quello che è avvenuto verso Est». Il genoma di un’unica donna della Civiltà dell’Indo (3° millennio a.C.), invece, risulta autoctono, senza apporti occidentali, il che suggerisce la probabilità che l’agricoltura, nel mondo indiano, abbia rappresentato uno sviluppo indipendente. Ma, soprattutto, la ricerca ha messo in forte crisi la teoria secondo cui le lingue indoeuropee risalirebbero alla Rivoluzione Neolitica.
«In realtà queste si diffusero molto dopo, nel corso delle migrazioni dei pastori nomadi delle steppe che, 5 mila anni fa, attraversarono il cuore dell’Eurasia, portando le proprie lingue a Ovest verso le terre che oggi chiamiamo Spagna e Portogallo, e a Est nel cuore dell’India. Insomma, dimostra come noi, in quanto europei moderni, siamo in un certo senso tutti figli delle steppe». Lo studio arrivava fino alle porte dell’India. «Una nazione in cui narrative di migrazioni e ascendenze genetiche rischiano di avere conseguenze politiche, mescolando nozioni tratte dai testi religiosi a quelle rivelate dalla scienza moderna».
Periodi di rimescolamento
Ora lavorare sul Dna antico sta aiutando a smontare l’idea che esistano specifiche popolazioni distinte, definibili come africane, asiatiche o europee, mentre si afferma la visione che tutti siamo il risultato di continue migrazioni e di periodi di mescolamento, oltre che di sviluppi locali autonomi. «Il Dna è certamente la chiave per capire tante realtà, anche se oggi non possiamo sapere se siamo completamente nel giusto - aggiunge il professore -. Il genoma umano è una dimensione immensa, per ora esplorata soltanto in parte. I miei studenti arrivano all’università pensando che sia stato già tutto scoperto, ma non è così. Solo negli ultimi 20 anni abbiamo individuato due grandi civiltà dell’antica età del Bronzo di cui non si era mai sospettata l’esistenza, una in Asia Centrale e l’altra nell’Iran sud-orientale. Di queste popolazioni non sappiamo nemmeno come chiamavano se stesse o che lingua parlassero. Da questo punto di vista siamo dei pionieri, proprio come nell’Ottocento».
«In futuro - conclude Vidale - dovremmo vedere se, ampliando il numero degli individui studiati e migliorando le tecniche di analisi, potremo fare affermazioni sempre più solide. Certo, sarebbe utile lavorare senza il minimo condizionamento ideologico o politico».