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 2019  settembre 18 Mercoledì calendario

Intervista al papà di Malala

Fatti più in là, Tiger Mom. Per allevare figli felici, quello che serve è un Padre Asino: ovvero paziente, testardo e disposto a portare sulle proprie spalle un grosso peso. Anche quello di un tentato assassinio contro la figlia prediletta. È la lezione che Ziauddin Yousafzai, padre di Malala, la giovane pakistana gravemente ferita dai talebani per impedirle di andare a scuola, premiata con il Nobel per la pace come simbolo della lotta per l’istruzione, consegna a Libera di volare , il suo libro di memorie, pubblicato in questi giorni in mezzo mondo (in Italia da Garzanti).
Un’autobiografia che parte dalla vita dell’autore, cresciuto in una delle regioni più povere del Pakistan, per raccontare il dramma vissuto dalla figlia e le vicissitudini di tutta la famiglia, trasferitasi in Inghilterra, prima per le lunghe cure necessarie a Malala, quindi per seguire gli studi di lei all’università di Oxford e la fondazione di beneficenza che porta il suo nome.
Padri e madri temono sempre che succeda qualcosa di brutto ai figli. Lei non temeva che il coraggio di Malala l’avrebbe messa nei guai?
«Ho sempre sognato di dare a Malala e agli altri miei figli quello che non ho avuto io da piccolo: un’istruzione, l’autonomia, l’indipendenza. Quando nel 2005 i talebani sono sconfinati nelle zone del Pakistan dove abitavamo, cominciarono subito a chiudere scuole femminili, a impedire alle ragazze di studiare. A quel tempo ero già un insegnante e un attivista dei diritti umani. Non volevo privare Malala di un’educazione. Ma al tempo stesso ero preoccupato per la sua sorte. La invitai a tenere un basso profilo, non dare nell’occhio, usare termini come "terroristi" piuttosto che talebani. Non era facile farle cambiare idea. Perché, mi chiedeva, non identificare per nome chi vuole portare le donne a un passato retrogrado?».
Quando si rese conto che Malala aveva qualcosa di speciale?
«Tutti i bambini sono speciali per i propri genitori. Quando Malala era piccolissima, a pochi mesi d’età, aveva occhi così vivaci e intelligenti. Imparò a parlare prima che a camminare. A tre-quattro anni faceva tante domande e si esprimeva in modo poetico: una volta disse che il colore della mia pelle era quello del latte nel tè! È sempre stata molto determinata. E con una passione per lo studio. Quando ha vinto il Nobel ha fatto i compiti come gli altri giorni».
Nel suo libro scrive: quello che non ho fatto per Malala è più importante di quello che ho fatto. In che senso?
«Nel senso di non averle tarpato le ali. Averle permesso di essere cioè che voleva, nel modo in cui voleva. Talvolta i genitori trasportano le proprie ambizioni o idee nei figli. Io ho cercato di lasciare che fosse, come nel titolo del libro, libera di volare».
Lei che animale preferisce, Ziauddin? In quale si identifica?
«Che strana domanda! Devo pensarci un po’. Ecco, vediamo, ma sì: forse l’asinello. Una bestia che per alcuni è sinonimo di stupidità, invece per me rappresenta la quieta forza, l’ostinazione, la pazienza e la capacità di portare un grande peso sulle spalle. Perché me lo chiede?».
Perché una figura in voga come modello di genitore è la Tiger Mom, celebrata da un bestseller sul tema. Sostiene che i figli vanno stimolati, comandati e costretti ad applicarsi con il massimo impegno.
«Allevare figli è il compito più difficile che esista e bisogna considerare le circostanze per decidere come comportarsi. La massima aspirazione, per me, è avere dei figli felici. Dare loro gli strumenti per scegliere la propria strada, senza imporne una o l’altra. Aiutarli a trovare se stessi, più con amicizia che con severità. Educare con l’esempio piuttosto che con gli ordini. Più che nella tigre, dunque, mi ritrovo nella metafora dell’asino».
Siete mai tornati in Pakistan, dopo l’attacco in cui Malala quasi perse la vita?
«Soltanto una volta, lo scorso anno, tutti insieme. È stato bellissimo rivedere la nostra casa, i nostri vicini, le nostre strade. C’erano rischi per la sicurezza, fino all’ultimo avrei preferito rinviare. Ma Malala ha insistito, dicendo che, avessimo dovuto attendere il momento ideale, non sarebbe mai arrivato».
Molti pensano che un giorno Malala ci tornerà per candidarsi a primo ministro. Come un’altra donna pakistana venuta a studiare a Oxford, Benazir Bhutto, eletta premier del Pakistan e poi assassinata…
«Non credo che Malala tornerà presto: vuole concentrarsi nella battaglia per l’istruzione, lanciata con quel discorso all’Onu, una ragazza, una matita, una scuola, possono cambiare il mondo. Ma se un giorno vorrà farlo, non potrò fermarla io».
Cosa pensa degli annunciati e poi annullati negoziati fra Trump e i telebani?
«Mi sembrano un tentativo di permettere all’America di uscire alla spicciolata da una guerra ventennale. Un vecchio detto afferma che se l’Asia è il corpo, l’Afghanistan è il cuore: da esso dipende l’equilibrio dell’intero organismo. A cominciare dal vicino Pakistan. Ridare legittimità ai talebani, che vogliono ripristinare l’oscurantismo, non mi pare una buona idea né per l’Afghanistan né per l’Asia intera».