Corriere della Sera, 18 settembre 2019
A Pippo Baudo questa tv non piace
Declinante, moribonda, viva ma non vegeta: Pippo Baudo, che momento vive la televisione?
«È un periodo di crisi, perché non c’è varietà e ideazione di programmi. I palinsesti sono tutti uguali».
Da cosa dipende quest’omologazione?
«È anche colpa dei reality e dei talent che condizionano le reti perché è più facile proporre elementi familiari per il pubblico piuttosto che rischiare con un programma ex novo. Aumentano i canali, aumentano i programmi, ma non aumentano le idee».
La «sua» Rai come sta?
«Da quando ha il canone in bolletta vive una condizione economica fortunata grazie a un incasso garantito. Avrebbe maggiori possibilità e avrebbe l’obbligo, come servizio pubblico, di variare l’offerta. Invece... La Rai dovrebbe creare gruppi di lavoro con il solo scopo di inventare e sperimentare programmi».
Il genere televisivo che non regge?
«Non sopporto più la cucina in tv, si mangia a tutte le ore e i programmi sono tutti uguali».
Tra le sfide del pomeriggio c’è quella tra Cuccarini e D’Urso...
«Lorella è quasi una mia parente, per lei ho un debole. Barbara D’Urso debuttò con me come valletta a Domenica in: diceva al massimo 10 parole, ora ne dice 10 milioni. Rimango meravigliato dalla sua capacità di creare dal nulla un discorso lunghissimo, che varia dalla commozione alla risata, una ricchezza degna di Paola Borboni e delle grandi attrici del passato».
In tv ci sono i soliti noti: Conti e Bonolis, De Filippi e Carlucci, Scotti...
«Tutti personaggi di carisma, che però si affezionano a programmi che vanno avanti per 10 e più stagioni. Una volta dopo due anni al massimo mi chiamavano e mi dicevano: guarda che il programma lo devi cambiare».
Il suo erede?
«Io eredi non ne voglio. Un conduttore deve avere caratteristiche fisiche, gestuali, vocali che siano proprie. Io arrivai ultimo, dopo Mike, Corrado e Tortora e quindi tentai in ogni modo di non somigliare a nessuno di loro. Mike faceva il quiz, Corrado il varietà, Tortora il giornalismo. Mancava la musica e io mi buttai lì con Settevoci».
Come vede Amadeus a Sanremo?
«Se lo merita, ha lavorato tantissimo, è una soddisfazione giusta».
La manca un programma da condurre?
«Non ho nostalgia di avere un programma mio. L’età c’è, come potrei concorrere con la Balivo? E poi anche il pubblico mi rimprovererebbe questo attaccamento morboso alla tv. Quindi va bene così. E come diceva Marcello Marchesi: tutto è perduto tranne l’ospite d’onore. Le ospitate mi divertono, ma anche lì non devi esagerare, l’ospite fisso alla fine puzza come il pesce».
Oggi sarà il protagonista della serata inaugurale della Festa del libro «Pordenonelegge». L’occasione è anche parlare dell’autobiografia «Ecco a voi. Una storia italiana» (Solferino) scritta con Paolo Conti. In 50 anni di carriera qual è la cosa più incredibile che le è capitata?
«Il primo Sanremo fu davvero indimenticabile. Levai di bocca la tromba a Louis Armstrong; a Lionel Hampton dovetti suggerire le canzoni all’orecchio; Dionne Warwick aveva una canzone meravigliosa, La voce del silenzio».
Cosa poteva evitare invece?
«L’ultimo Sanremo, nel 2008. Era un papocchio, meno male che c’era Chiambretti. Le canzoni non erano granché e senza soldati la guerra non si vince. Però almeno mi sono portato a casa il record dei 13 Sanremo. Mi sa che è difficile batterlo».
Si è mai sentito onnipotente?
«La malattia di Napoleone era un rischio alla portata, ma non mi ha sfiorato. Quando azzecchi due o tre cose di fila, puoi pensare: non sbaglio più. Ma poi arriva un bell’errore a darti il senso della tua fragilità».