Corriere della Sera, 17 settembre 2019
Serie A, addio alle difese di una volta
Santi, poeti e goleador. Chi l’avrebbe detto, anche solo qualche anno fa? E invece stiamo cambiando. Anzi, forse siamo già cambiati. È la metamorfosi del nostro calcio, del nostro modo di pensarlo, di giocarlo, di viverlo. Aveva ragione Arrigo Sacchi, in estate: «Sarà una stagione di svolta». Ideologica, filosofica, quindi tecnica. È stato così. Siamo passati dall’essere il campionato degli 0-0, del «primo non prenderle», a una calcio votato all’attacco, alla spinta. Al gioco. Al gol. Mai così tanti da settant’anni a questa parte.
Resta da capire quale sia la causa e quale l’effetto. Sono migliorati gli attacchi o peggiorate le difese? Innanzi tutto, il dato. Inequivocabile. Siamo solo alla terza giornata, ma la tendenza è chiarissima: la media reti per partita è 3,2. Nessuno come noi, nell’Europa che conta. L’unica volta in cui riuscimmo a fare meglio fu 3,3 nel 1949/50. Fu l’anno dei 35 centri di Nordahl, che però non bastarono al Milan per lo scudetto. Andò alla Juve, che fece fruttare la miglior difesa del torneo. Una regola che è diventata legge e che gli americani sintetizzano così: «Gli attacchi fanno vendere i biglietti, le difese fanno vincere i campionati».
Attenzione, l’efficacia della formula non è in discussione: oggi in testa alla A c’è la squadra che difende meglio (Inter, 1 gol subito) e non quella che segna di più (Napoli, 9). L’impressione è che però ora si cerchi di vendere anche i biglietti, oltre a vincere le partite. I club devono commercializzare un modello, produrre uno show, trasformarsi in un marchio. L’esempio della Juve, passata da Allegri a Sarri, è lì da vedere. Che poi funzioni o meno è un altro discorso, ma il piano è esplicito: le società, anche quelle italiane, hanno capito che il business, quindi il futuro, sta nel gol.
Nella scia di Cristiano sono arrivati o tornati in molti: Lukaku, Lozano, Sanchez, Llorente. Balotelli. Perché anche le piccole ora vogliono giocare a testa alta: Brescia e Lecce puntano a salvarsi attraverso il gioco. «C’è voglia di vincere divertendo, è cambiata la mentalità» sostiene Alessandro Altobelli. Merito, aggiunge, anche della tv. «Oggi i ragazzi vedono come si gioca in Spagna o in Inghilterra e vogliono quel tipo di calcio». Nuove esigenze, nuovo calcio, nuove regole. Che agevolano sempre l’attacco. Come la nuova regola sui rigori, dove il braccio largo viene sempre punito. E poi c’è la tecnologia. «Oggi marcano tutti a due metri perché temono di essere beccati dalla Var, sanno che non avranno scampo» dice Sergio Brio, ex stopper della Juve. C’è però chi sostiene che sia anche in corso un’evoluzione del ruolo. Come Roberto Cravero, ex Torino e Lazio: «Molti difensori sono più efficaci come attaccanti, servono per i calci piazzati, sempre più decisivi nel calcio moderno».
«Ma la vera ragione è che ci sono troppi difensori scarsi – chiude Fulvio Collovati, ex marcatore di Milan e Inter —. Manca la tecnica, manca la scuola, si lavora troppo per reparto, guardando la palla e mai l’avversario, infatti si vedono strafalcioni allucinanti». Santi, poeti, goleador e difensori scarsi, ecco cosa siamo adesso. È in fondo anche la ragione per la quale oggi un buon terzino costa una fortuna. Perché è diventato raro come un buon attaccante. Forse anche di più.