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 2019  settembre 17 Martedì calendario

Biografia di Concetto Marchesi scritta da Luciano Canfora

Concetto Marchesi (1878-1957) è stato uno dei più grandi studiosi novecenteschi del mondo antico. Probabilmente il più grande: la sua Storia della letteratura latina fu considerata un classico fin da quando fu pubblicata nel 1927. Marchesi è stato, però, anche un importantissimo intellettuale comunista. E, forse, qualcosa di più di un intellettuale che si professava comunista. Arduo descriverne la vita. Nessuno avrebbe potuto cimentarsi con tale impresa meglio di Luciano Canfora nell’affascinante libro (oltre mille pagine) Il sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano che esce dopodomani, 19 settembre, per Laterza.
È un ritratto politico del grande studioso, dalla sua militanza nel Partito socialista iniziata nel 1895 (ma interrotta nel 1911, ai tempi della guerra di Libia a seguito di una rottura riconducibile ad una ben individuabile influenza massonica), ripresa nel primo dopoguerra per approdare al Partito comunista d’Italia dalla fondazione, a Livorno, nel gennaio 1921. Inizialmente come seguace di Amadeo Bordiga, in seguito di Palmiro Togliatti. Poi, nel corso del ventennio fascista, Marchesi in un certo senso si eclissò. Tra sé e sé rimase comunista e di ciò lasciò ampia traccia tra le righe dei suoi scritti. Conservò legami con esponenti del suo mondo precedente (e qui preziosissimo è il contributo di testimonianze di Ezio Franceschini), ma rifiutò l’idea di trasformarsi in un militante rivoluzionario a tempo pieno. 
Non una sola parola nel libro di Canfora è volta a metterne in dubbio la grandezza. Anzi. Ma non se ne tacciono le ambiguità. Nel 1931 Marchesi accettò il giuramento di fedeltà al fascismo imposto ai professori universitari. Lasciò intendere che glielo avesse chiesto il partito. Però quando il docente morì nel 1957, un altro intellettuale comunista, Ludovico Geymonat, tornò sull’argomento scrivendo della «difficoltà di conciliare l’affermata intransigenza del Marchesi con il suo compromesso nei riguardi del fascismo». E ricordò che un pugno di intellettuali aveva saputo dire di no al giuramento. «L’Unità» reagì (Inaccettabile vile attacco del compagno Geymonat al compagno Marchesi fu il titolo dell’articolo), ma non confermò che all’inizio degli anni Trenta fosse stato il partito a ordinare al latinista quel compromesso. 
Nel 1935 Marchesi giurò una seconda volta quando decise di entrare a far parte dell’Accademia nazionale dei Lincei. Benedetto Croce, Antonio De Viti De Marco, Vito Volterra, Vittorio Emanuele Orlando, Umberto Ricci e altri non vollero giurare e furono esclusi dall’Accademia. Nell’agosto del 1939 l’illustre cattedratico accettò inoltre di essere incluso nella «super-fascista» Accademia d’Italia, rinnovando per la terza volta il giuramento al regime e probabilmente prendendo la tessera del Partito nazionale fascista (come ammetterà lui stesso, ai tempi della sua fuga in Svizzera, nel primo interrogatorio a Bellinzona l’11 febbraio del 1944): «scelte sconcertanti», le definisce Canfora. E sconcertante forse fu anche, negli anni Trenta e nei primi Quaranta, la sua attiva partecipazione ai bimillenari (di Virgilio, Augusto, Tito Livio) organizzati dal regime per celebrare sé stesso. Particolarmente imbarazzante una conferenza da lui tenuta a Perugia il 1° ottobre 1942.
Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, Marchesi riallaccia i contatti con la politica clandestina. Livio Maitan, Lelio Basso, Cesare Musatti (e altri) diedero versioni diverse sulla sua ripresa dei rapporti a Padova con il mondo comunista. Lo studioso sostenne di aver avuto un proficuo dialogo con Eugenio Curiel (ucciso a Milano dai fascisti il 24 febbraio del 1945) e con i giovani comunisti che, attorno a Curiel, alla fine degli anni Trenta si erano radunati in un gruppo universitario antifascista. Ma Giorgio Amendola (spesso in attrito con lo studioso), nella prefazione agli scritti dello stesso Curiel, negò che all’epoca vi fossero stati contatti tra Marchesi e Curiel.
E venne il 25 luglio del 1943, con la detronizzazione di Mussolini. Marchesi nel mese di giugno diede un contributo alla trama monarchica che portò alla caduta del fascismo. Poi il nuovo ministro dell’Istruzione del governo Badoglio, Leonardo Severi, nominò alcune personalità del mondo antimussoliniano alla guida delle più importanti università italiane. A Marchesi toccò Padova. Dopo l’8 settembre e l’armistizio, gran parte dei rettori nominati da Severi – come Luigi Einaudi (Torino) e Piero Calamandrei (Firenze) – si diede alla macchia. Marchesi, scettico sulle prospettive di lotta armata contro i tedeschi (a suo giudizio «una burattinata del Pci»), decise di restare al suo posto anche in virtù di un eccellente rapporto con il ministro della Cultura nazionale della Rsi, Carlo Alberto Biggini. Disobbedendo in questo modo ad una specifica direttiva del Pci che imponeva un’ assoluta «non collaborazione» con i saloini dal momento che, spiega Canfora, c’era un altissimo rischio di «confusione, specie tra i militanti di formazione “classista”, di fronte all’improvvisato e potenzialmente insidioso anticapitalismo socializzatore della Repubblica di Mussolini». Dopo la guerra uno scrittore assai generoso nei confronti della Rsi, Attilio Tamaro, nel libro Due anni di storia. 1943-1945 (Tosi editore), avrebbe citato il rettorato di Marchesi a Padova come prova della politica conciliante avviata da Salò. Pietro Secchia comprese l’insidia di questa operazione e su «La nostra lotta» subito bollò i compagni che abboccavano all’amo della Rsi come «agenti della Gestapo». 

Alla notizia che Marchesi non obbediva al partito e aveva addirittura trovato un accordo con il comando tedesco, i dirigenti del Pci furono sconvolti. Mauro Scoccimarro giudicò quella del rettore di Padova una «grave compromissione» con il regime di Salò. Luigi Longo rivelò dopo la guerra che il partito, in conseguenza di quella «compromissione», aveva preso nei suoi confronti una rilevante «misura disciplinare». Non l’espulsione, ma quasi. Poi tutto ciò finì nell’oblio e nella contraffazione storica.
Nell’orazione funebre alla Camera in onore del grande latinista (14 febbraio 1957), Togliatti non fece alcun cenno alla «misura disciplinare» di cui aveva parlato Longo. Anzi parve far confusione tra il discorso inaugurale di Marchesi all’Università (9 novembre) e il suo successivo appello all’insurrezione. Il discorso del 9 novembre non solo non aveva incitato alla lotta antifascista, ma era stato un capolavoro di ambiguità e aveva entusiasmato persino gli «studenti in divisa» della Rsi. Marchesi lo aveva fatto leggere in anticipo al ministro Biggini (che ne fu entusiasta) e venne pubblicato – in qualche caso integralmente – da molti giornali del fascismo repubblicano. Perché quell’allocuzione piacque ai fascisti della Repubblica sociale? Per il fatto che, secondo Canfora, pareva far «propri alcuni motivi allora ricorrenti nella propaganda della Rsi contro gli Alleati». Di più: la «concessione» alle posizioni ufficiali della Rsi era addirittura «visibile e intenzionale».
Fu dunque il discorso del 9 novembre assai diverso dal successivo appello all’insurrezione con cui, dopo Togliatti, moltissimi storici (persino Claudio Pavone) lo avrebbero confuso. Questo secondo appello (diffuso il 5 dicembre 1943) fu rivolto agli studenti quando Marchesi aveva deciso di darsi alla latitanza dopo l’attentato partigiano al federale fascista di Ferrara Igino Ghisellini (15 novembre) che provava come la lotta armata comunista non fosse affatto una «burattinata». Quando il grande latinista decise di scrivere questo secondo testo, era già fuggito dapprima a Milano e successivamente (dopo un nuovo scontro con il Partito che lo avrebbe voluto mandare a Roma) in Svizzera.

In Svizzera coltivò relazioni importanti con membri del Partito d’Azione e dei servizi segreti inglesi. Pur continuando ad avere rapporti amichevoli con il ministro Biggini, il quale da lui ricevette, dopo il suo addio a Padova, una lettera in cui l’ex rettore lo «ringraziava» e lo «elogiava» per il suo operato. 
Il dirigente comunista con cui in questa fase Marchesi interloquì maggiormente fu Girolamo Li Causi. Fu a Li Causi che offrì l’articolo durissimo contro Giovanni Gentile che, significativamente manipolato, fu presentato dal partito come Sentenza di morte (questo il titolo che gli fu dato su «Rinascita») nei confronti del filosofo, poi ucciso a Firenze da un commando gappista il 15 aprile 1944. Quell’articolo e l’accettazione dell’aggiunta di parole apocrife, che chiedevano l’esecuzione di Gentile, sarebbero stati decisivi per il ristabilimento di un rapporto di fiducia con il partito. 

Nel dopoguerra, Marchesi – parlamentare del Pci – diede nuovamente alle stampe il discorso padovano del 9 novembre ma, scrive Canfora, «non resistette alla tentazione – in lui abituale – di ritoccare i propri scritti all’atto di ripubblicarli». Nella seconda metà degli anni Quaranta, conquistata una posizione di rilievo nel Pci, Marchesi ricostruì (o permise che venisse ricostruita) la sua vita nel corso del ventennio, trasformando, sostiene Canfora, momenti di «evidente compromissione» in conflitti con il regime stesso o con i tedeschi. La sua biografia fu arricchita da una discreta serie di «mistificazioni e occultamenti». Con l’aggiunta di racconti assai fantasiosi circa suoi scontri con gli uomini di Mussolini o di Hitler. Episodi in più d’un caso «inventati di sana pianta». 
Da parlamentare comunista, nel 1947 Marchesi votò («anche per lealtà massonica», secondo Canfora) contro l’inserimento dei Patti lateranensi nella Costituzione italiana voluto da Togliatti. Assieme a Scoccimarro e al socialista Lelio Basso, nel 1948 – dopo l’insuccesso socialcomunista alle elezioni politiche del 18 aprile e l’attentato a Togliatti – fu tra i sostenitori della tesi che l’ Italia si stesse fascistizzando (tema che, a sinistra, sarebbe stato riproposto più e più volte nei settant’anni successivi). E non solo per colpa della Democrazia cristiana. Nel luglio di quello stesso 1948, a proposito di una discussione parlamentare sul piano Marshall, Marchesi scrisse che «una chiara voce di assalto fascistico si era levata a Montecitorio dai banchi liberali che del fascismo si possono ormai considerare diretti e legittimi eredi». Nel 1951, dopo essere stato fermato nel corso di una manifestazione, scrisse per «l’Unità» un articolo in cui definiva la polizia «malavita in divisa» e stigmatizzava il ministro dell’Interno Mario Scelba come «organizzatore dei malviventi». Nel dicembre 1956, un anno prima della morte, Marchesi fece in tempo a pronunciare parole di irrisione nei confronti del leader sovietico Nikita Krusciov, che in febbraio al XX congresso del Pcus aveva denunciato i crimini di Stalin. E definì «cagnara reazionaria, clericale e fascista» la protesta di alcuni intellettuali del Pci per la repressione sovietica della rivoluzione ungherese.
Canfora parla delle «due vite» di Concetto Marchesi. Quella «di uomo di genio, con la sua grandezza, le sue debolezze, le sue zone d’ombra, il suo fiuto politico talora lungimirante, il suo caratteriale individualismo». E quella del mito postumo creato dal Partito comunista, «alla cui costruzione, per certi versi, egli stesso non fu estraneo». Questa «seconda vita, cucitagli addosso», secondo Canfora, «col passar del tempo», gli avrebbe «nuociuto». Non eccessivamente, però. Il nostro in fondo è un Paese che non disdegna questo genere di miti postumi. Miti divenuti con il tempo parte integrante della biografia complessiva degli italiani.