Corriere della Sera, 17 settembre 2019
Intervista a Igort
Se al cinema avete già visto «5 è il numero perfetto» con Toni Servillo, forse non sapete che il regista e autore del film è un uomo alto e gentile, che negli anni giovanili viaggiava assieme a Pier Vittorio Tondelli e divideva la stanza con Andrea Pazienza, che ha vissuto in Siberia e che una volta, giunto nella casa natale del suo autore preferito, Cechov, ha finto di essere il nipote dello scrittore, mentre i guardiani del museo lo fissavano attoniti e intimiditi.
Igort, ma perché quella bugia?
«Non era propriamente una bugia: mia nonna, quando ero bambino, mi leggeva i romanzi francesi e russi raccontandomi le storie degli scrittori così come si raccontano le vite dei parenti. La finzione si scioglieva nella realtà, diventavano una cosa sola. E, sì, oggi per me Cechov è davvero “un parente”, così come lo sono Victor Hugo o Balzac».
Igor Tuveri, in arte Igort, disegnatore di storie a fumetti, musicista, scrittore, nato a Cagliari. In una famiglia a dir poco bizzarra.
«Mio padre, compositore, si era messo in testa che nelle fondamenta di una delle nostre case, una dimora seicentesca, fosse nascosto il tesoro di zio Ilario, buonanima. E così scavò nel pavimento fino a far crollare l’intera casa».
In famiglia gli spiriti venivano evocati come presenze amiche, quasi servizievoli.
«Sì: avevi perso un cappello? Evocavi lo spirito. Dovevi sostenere un’interrogazione? Si ricorreva al pendolino. Sono cresciuto in una realtà magica, simile a quella che poi ho ritrovato nei romanzi di García Márquez. Da piccolo credevo che ogni cosa fosse possibile. La vera sorpresa l’ho avuta a scuola, quando ho visto che non tutti i bambini ragionavano così».
Il terreno perfetto per nutrire la fantasia di un autore di fumetti, no?
«Certamente. Pensi che mia nonna e sua sorella vivevano in due case adiacenti, separate solo da un muro spesso un metro. Avevano fatto un buco e passavano i pomeriggi a parlarsi attraverso quella fessura. Una grande idea narrativa, pronta per essere disegnata».
Però suo padre, quando lei compì sei anni, le regalò una scatola di colori ad olio, perché?
«Perché aveva capito che volevo diventare un autore di storie a fumetti e cercava di spostare la mia inclinazione verso una forma più tradizionale, come la pittura. Era preoccupato perché fermamente convinto che mai il fumetto avrebbe acquistato la stessa rispettabilità della pittura. O, almeno, lo stesso peso sul mercato, per essere più prosaici».
Crede che suo padre avesse ragione?
«Purtroppo sì. Badi bene, non sono io a dirlo, ma i fatti: in Italia quanti autori di fumetti vengono invitati nei festival letterari importanti? O che peso hanno nei grandi circuiti delle mostre? Noi non siamo l’America, un Paese giovane e pronto ad accogliere le avanguardie. Una volta Art Spiegelman mi disse “Igort, ce l’abbiamo fatta”, intendendo una sorta di riscatto della nostra arte nel panorama mondiale. Non risposi, ma pensai che non era vero, che mio padre era stato lungimirante».
Però lei non lo ascoltò.
«No. Ad un certo punto della mia adolescenza smisi di parlare. Mi costruii un mondo immaginario dove le cose avvenivano nella più libera fantasia ma soltanto nella mia testa».
Poi, a diciott’anni, lei si trasferì a Bologna. Dove Umberto Eco, nelle sue lezioni, insegnava che un’altra narrazione era possibile.
«Eco è stata la ragione per la quale mi sono iscritto al Dams. Era il 1977 e lui e Oreste del Buono erano gli unici che davano dignità letteraria ad un genere che – diciamolo – in Italia non ha mai fatto presa negli ambienti colti. Pensi che le aule dove Eco spiegava Apocalittici e Integrati erano così piene che bisognava mettere una piccola amplificazione all’esterno e noi ci sedevamo per terra, lungo i corridoi».
Però, Igort, lei ha fatto carriera: le mostre alla Triennale, il film con Servillo, i libri. Ha contribuito a fondare collettivi come Valvoline e dirige riviste come «Linus».
«È vero, ma rimane sempre il fatto che quando mi presento in una veste diversa da quella dell’autore di fumetti l’accoglienza è molto più “alta”. Quando mi vesto da regista, scrittore di romanzi, da musicista vedo che lo sguardo cambia. D’altra parte, in Italia siamo stati costretti a coniare il termine graphic novel per far rientrare dalla finestra un genere che stava scomparendo dalle librerie e che la crisi delle edicole stava polverizzando».
Negli anni bolognesi, gli anni Settanta, l’orizzonte era diverso?
«Molto. Intanto perché c’era un meticciato fertile e interessantissimo. Scrittori, disegnatori, musicisti, filosofi, pittori: stavamo sempre assieme e tutti assorbivamo suggestioni dagli altri. La cosiddetta Scuola bolognese del fumetto – cioè io, Mattotti, Carpinteri e gli altri – cresceva frequentando la compagnia dei Magazzini Criminali e ragazzi che seguivano le lezioni di Ezio Raimondi».
Mentre a Bologna (e non solo) Pier Vittorio Tondelli raccontava una scandalosa e inedita periferia pasoliniana. Era un suo amico?
«Ci frequentammo a lungo. Gli facevamo sempre il solito scherzo: quando arrivava noi fingevamo di non vederlo e ci mettevamo a parlare male di lui, come se non fosse stato presente. Oh, ma lo sa che si incazzava ogni volta, anche se sapeva che era uno scherzo?».
È vero che per un periodo lei si trasferì a casa di Andrea Pazienza per lavorare?
«Io ero molto lento nel disegno, usavo matite affilate e forti. Lui era velocissimo, andava di pennarello, geniale e iperbolico. Volevo prendere il suo ritmo, diventare più immediato. Finì che io non diventai più veloce ma lui divenne più lento. Ricordo esattamente il giorno e l’ora in cui Betta, la sua compagna storica, mi chiamò per dirmi solo “È morto Andrea”. Per me fu una sorta di perdita dell’innocenza».
Perché?
«Perché mi resi conto che non avevo capito nulla. Negli anni bolognesi ho più volte tentato il suicidio, ho corteggiato la morte, convinto scioccamente che arrivasse a chiamata. Era un gioco: tutto rientrava in un grande, folle, gioco di leggerezza, teatralità, cultura, pazzia. Poi però ho perso delle persone care. E tutto è cambiato. Mi sono reso conto che la biologia è una cosa dura, che non sempre siamo attori di noi stessi. Quando ho visto la prima foto di mia figlia, che era ancora nella pancia di sua madre, mi sono sentito agito da qualcun altro. E ho capito che avevo sbagliato tutto, tutto».
L’eroina si portò via tanta gente all’epoca. Lei non l’ha mai provata?
«La mia autodistruzione aveva un altro alfabeto più intimo. Una volta dissi a Pazienza che, al massimo, avrei accettato di provare la cocaina, perché volevo rafforzare il controllo sulle mie azioni, non perderlo. Allora Andrea mi fece uno scherzo terribile: mi diede dell’eroina da tirare spacciandola per coca. Stetti malissimo: vomito, febbre, brividi, rischiai grosso. Da allora, più nulla. Per fortuna».
Diciamo che ha provato altri stimoli. Il lungo soggiorno in Siberia, per esempio.
«Ho trascorso due anni tra Ucraina, Russia e Siberia. Da quell’esperienza sono nati i Quaderni Russi e i Quaderni Ucraini. Ho raccontato le pieghe di un mondo che pochi conoscono e questo è un retaggio di quell’infanzia di cui parlavo prima: i racconti di mia nonna, i gesti assurdi di mio padre, quel confondere la materia letteraria con la vita reale mi ha portato ad annullare le distanze. Sento il bisogno di oltrepassare le barriere e di vivere a fondo i luoghi che poi vado a raccontare, con le immagini e con le parole».
Una casa in Sardegna e poi Parigi. Ma perché tutti voi disegnatori state a Parigi?
«È la stessa domanda che mi ha fatto Nanni Moretti. Perché in Francia il fumetto non è una cosa da edicola — che pure, secondo me, è un bellissimo canale – ma da libreria. È un’arte che viene presa sul serio e che ha un mercato enorme. C’è una lunga tradizione che permette a molti di noi di vivere del nostro lavoro. Pensi che la stessa storia di Hugo Pratt vendeva 160mila copie in Francia e cinquemila da noi. Fu allora che lui decise di numerare le storie».
Igort, lei ha fatto tante cose. Qual è stata la più difficile da portare a termine?
«Il cinema. Perché è una guerra. Sei sempre in trincea: contro il tempo, contro il meteo, contro la burocrazia. È stritolante».
Com’è stato il primo incontro con Servillo?
«Da raccontare. L’appuntamento era in un bar di piazza dei Martiri, a Napoli. Io arrivavo direttamente dalla spiaggia, calzoni corti e camicia hawaiana. Lui mi guardò, scoppiò a ridere e disse: “Fatti abbracciare”. Ci sedemmo ma poco dopo cominciò una processione di ragazze bellissime e in bikini che entravano e uscivano dal bar. Non capivamo, ci sembrava di stare già in un film. Poi venimmo a sapere che quel locale era un “appoggio” per le candidate alla selezione di miss Italia o una cosa del genere. Insomma, parlavamo come se stessimo assistendo a una partita di tennis, girando continuamente lo sguardo. Ridemmo molto».
Lei ride spesso?
«Con le persone giuste».
E di che cosa ha paura?
«Che si spenga la luce».