A questo incontro, Malagò ci arriva ferito, quanto meno nell’orgoglio, dalla storia della "lettera al Cio", pubblicata da Repubblica venerdì scorso. Una vicenda per la quale qualcuno, soprattutto tra i 5 stelle, ha chiesto le sue dimissioni.
Parliamo della lettera riservata che Malagò inviò a James MacLeod (responsabile delle relazioni con i comitati olimpici nazionali) il 31 luglio scorso nella quale il n.1 del Coni dettava — parola per parola, errori compresi — la parte cruciale della missiva che il Cio manderà effettivamente il 6 agosto, e nella quale sono contenute anche le minacce del ritiro del riconoscimento olimpico all’Italia (donde, la mancata partecipazione ai giochi di Tokio 2020 e l’annullamento di Milano- Cortina 2026). «Avevo il preciso obbligo istituzionale di farlo», è sempre stata la spiegazione di Malagò. Il quale però aveva già ottemperato a quell’obbligo neppure 24 ore prima, mandando una mail (ma senza fare alcun riferimento alle sanzioni) all’attenzione del n.1 del Cio Thomas Bach.
Presidente, partiamo da qui. Perché quella seconda comunicazione?
«Le mail di cui siete venuti in possesso fanno parte di un’operazione strumentale. Posso raccontarvi come è andata la vicenda? ».
Provi a convincerci.
«Io sono obbligato a segnalare al Cio ogni possibile violazione della carta olimpica. E così il 30 luglio scrivo a Bach, spiegandogli che la riforma in discussione in Italia poneva una serie di problemi. Bach, e questo è il pezzo che vi manca, mi risponde via mail chiedendomi di inviare a MacLeod una copia della legge tradotta e una serie di spiegazioni. Cosa che faccio sei ore dopo. Tutto qui».
Sì ma perché si prende la briga, nella seconda mail, di indicare — e in grassetto — tutte le sanzioni possibili per l’Italia? Che poi sono quelle che sono state assunte in passato per situazioni oggettivamente distanti dalla nostra, per dire il Kuwait o il Sudafrica dell’apartheid?
«Io nella lettera dico le stesse identiche cose che ho detto in Senato qualche giorno prima. Ripeto. Me lo aveva chiesto il Cio».
Come mai al Cio ha parlato di decreto legge invece che di legge delega. Non è un dettaglio, lei ha rappresentato uno scenario peggiore di quello che era...
«Perché in quel momento ancora non era stata votata. E perché il Cio si aspettava un decreto legge sul tema — per alcuni aspetti perfettamente sovrapponibile — della legge olimpica, quella che dobbiamo fare entro novembre per Milano- Cortina. Io scrivo a Bach e McLeod perché sono preoccupato. Genuinamente preoccupato. Io mi sono caricato un lavoro enorme sulle spalle per un anno e mezzo, massacrandomi la vita e gli affetti per portare in Italia le Olimpiadi».
Beh, le è stato riconosciuto...
«Mi creda: un vero capolavoro dopo la figura che abbiamo fatto con Roma 2024. Poi — come sono tenuto a fare — segnalo al Cio che ci sono dei rischi concreti che l’Italia non rispetti la carta olimpica. E i giornali invece di concentrarsi su questi rischi, si concentrano sulla mia segnalazione. Non capendo che noi siamo vittime assolute e che se va avanti così rischiamo di trovarci nelle condizioni di non poter rispettare gli impegni che ci siamo presi vincendo la sfida per Milano- Cortina».
A proposito di Milano-Cortina ha pensato che possa esserci un conflitto di interessi tra il ruolo di presidente del Coni (il cui obiettivo è vincere medaglie) e presidente del comitato organizzatore, che deve garantire pari possibilità a tutti partecipanti?
«Questa è nuova! Credo che se l’Italia ospiterà le Olimpiadi, tra i vari motivi, c’è anche il fatto che io ero il designato presidente. Sa chi l’ha detto? Giorgetti».
Tra i veleni intorno alla polemica sulla riforma dello sport, c’è anche quello dei biglietti omaggio all’Olimpico: la tribuna Aniene, i biglietti a politici e magistrati.
«È una completa mistificazione dei fatti. Quando sono arrivato ho eliminato 900 tessere Coni ai parlamentari. Nei criteri per l’assegnazione dei biglietti che spettano al Coni per le partite di Roma e Lazio (sono accordi antichi che non ho fatto io) ho imposto che vengano attribuiti per primo agli atleti, poi ai tecnici, ai dirigenti e alle associazioni sportive. E anche alle istituzioni. Se l’ufficio per le relazioni istituzionali — cui spetta l’ultima parola — decide di darli anche a un sottosegretario, o a un membro del Csm, che sono autorità di Stato, non vedo quale sia il problema. Se questo è l’elemento con cui pensano di mettere in diffcoltà il Coni sono messi male».
Come si esce da questa situazione? Secondo la sua visione, qual è il miglior modello per riformare lo sport italiano?
«Io sono rispettoso delle istituzioni. Non sono un guerrigliero. Non posso anticipare le considerazioni che farò con il ministro. Posso solo dirle che quella che è stata fatta non è una riforma. È una legge. Ma è una legge zoppa».
Si può pensare a una convivenza tra Coni e Sport e salute?
«Io vado d’accordo anche con i sassi. Ma se non veniamo rispettati e ci vogliono togliere la dignità… allora dico che non si può fare. Ci hanno voluto ridimensionare politicamente, lo abbiamo capito. Ma non possono toccare la nostra dignità, la nostra autonomia. M’hai voluto ammazzare? Mi hai voluto chiudere in un ettaro invece che in cento? Ok, ma almeno lasciami libero in quell’ettaro. Tu puoi anche non darmi più i soldi, non sei costretto. Lo accetto. Ma non puoi dirmi che cosa devo fare».
Secondo lei cosa è cambiato nel rapporto tra politica e sport?
«La politica è voluta entrare in questo mondo in un modo diverso. Ne prendiamo atto. Però prendiamo anche atto che, come tutti riconoscono, la legge non è fatta bene, non è chiara, non è completa».
Molti suoi critici le contestano un’eccessiva personalizzazione di questa battaglia.
«Che è buffo. Perché io sto letteralmente prestando servizio a un movimento che mi chiede di essere difeso. Personalmente non ho molto da guadagnare. Come presidente del Coni posso fare al massimo un altro mandato. Ma sono membro Cio a livello individuale per i prossimi dieci anni e, per contratto, sono presidente di Milano- Cortina. Non ci guadagno un euro. Fortunatamente non ne ho bisogno ».