Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2019
Saudi Aramco ora è un problema
Per ora gli imminenti «road show» con analisti e investitori e gli incontri tecnici con i banchieri coinvolti appaiono confermati. Ma sono in pochi a credere che il collocamento pubblico iniziale di Saudi Aramco – già rinviato di un paio d’anni rispetto alle ipotesi iniziali – possa avvenire a novembre sul mercato interno e tantomeno esser seguito da una Ipo internazionale già l’anno prossimo: le indiscrezioni segnalano discussioni in corso tra i responsabili della politica economica e i top executive di Aramco sull’opportunità di dilazionare la maxiIpo fino a quando i livelli produttivi – tanto duramente colpiti dagli attacchi di domenica – siano ricondotti alla normalità. Molti osservatori, intanto, sottolineano che le politiche regionali aggressive promosse dal principe della corona e reale governante del Paese Mohammed bin Salman – iniziatore del conflitto con i ribelli Huthi dello Yemen nel 2015 nonché esasperatore dei contrasti non solo con Iran e Qatar, ma anche con Turchia e Libano -, stiano provocando grandi problemi alle sue strategie economico-finanziarie finalizzate a cambiare il volto dell’Arabia Saudita e renderla meno dipendente dal settore energetico.
Una degli elementi fondamentali per realizzare la sua «Vision 2030» sta nella capacità di attrarre investimenti stranieri ed espandere il ruolo del settore privato nell’economia dal 40 al 65%, per creare molti milioni di posti di lavoro variegati e far decollare progetti ciclopici come quello da 500 miliardi di dollari per creare Neom (la futura mega-area di sviluppo economico-tecnologico sulla costa del Mar Rosso, che dovrebbe proiettarsi come zona franca in Giordania ed Egitto).
Se già quasi un anno fa – sulla scia dell’efferata uccisione in Turchia del giornalista Kashoggi – gli entusiasmi di una parte degli investitori internazionali si erano raffreddati, ora il rafforzamento della percezione del «rischio Paese» – al di là degli effetti a medio termine – rende inattingibile la valutazione di 2mila miliardi di dollari per Saudi Aramco che bin Salman è accreditato di voler conseguire in sede di Ipo. Una operazione che il leader di fatto del Paese aveva mostrato di voler accelerare cambiando i vertici solo alcuni giorni fa: al posto del defenestrato Khalid al Falih – sia ministro dell’energia sia presidente di Aramco – a guidare il ministero è stato nominato il suo fratello maggiore Abdulaziz bin Salman, mentre a capo della compagnia è stato designato Yasir al-Rumayyan, responsabile del principale fondo sovrano saudita (PIF).
L’arrivo di un uomo di finanza e non di un «oilman» al vertice della più grande società petrolifera del mondo potrebbe essere considerato un progresso nel senso di una apparente separazione tra governo e impresa, ma non è stato apprezzato da tutti gli analisti: c’è chi teme che gli interessi del PIF possano prevalere. Nei piani di transizione economica, il fondo sovrano ha un ruolo fondamentale che prevede un sensibile aumento delle sue risorse e attività.
Ma non è andata esente da problematicità la recente strategia di investimento del Pif, con operazioni più da gruppo di private equity che da tradizionale investitore istituzionale pubblico. È il Pif, ad esempio, ad aver fornito 45 miliardi di dollari al fondo tecnologico Vision I del vulcanico investitore giapponese Masayoshi Son, noto per effettuare azzardate scommesse multimiliardarie nell’hi-tech. Ci sono voci che i sauditi non abbiano apprezzato – e almeno in una occasione posto il veto – a iniziative di Son, che non a caso ha dovuto rinunciare a un sostanziale ulteriore apporto saudita nel lanciare il secondo maxifondo Vision.
Ad ogni modo, potrebbe non essere troppo arduo per bin Salman forzare la quotazione dell’1% di Aramco sul Tadawul. È la porzione internazionale dell’Ipo – sottolinea ad esempio Ayam Kamel di Eurasia Group – a profilarsi come molto più problematica, in quanto investita da un più alto e duraturo rischio geopolitico, che tra l’altro potrebbe solo aumentare se Riad dovesse dar corso alla minaccia di gravi ritorsioni. Il paradosso è che, per poter realizzare le sue riforme sistemiche e i suoi colossali progetti, bin Salman avrebbe bisogno -secondo diffuse stime internazionali – di un prezzo del greggio più vicino agli 80 dollari che a quelli prevalenti quest’anno: il balzo delle quotazioni avviene però per le ragioni più sgradite e più controproducenti, senza nemmeno accrescere il valore di Aramco.