La Stampa, 17 settembre 2019
Lo stuntman rischia l’estinzione?
Il mondo del cinema è pieno di Cliff Booth. Palestrati, prestanti, pronti a tutto. Esattamente come il personaggio che Brad Pitt interpreta in C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino. Controfigura di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), divo di western tv alle prese con il viale del tramonto, Booth è la chiave di volta del racconto, la forza dell’amicizia virile, il pragmatismo del self made man contro i fanatismi fumosi dei predicatori del male, la parte buona dell’America contro quella bacata: «Può succedere - dice Claudio Pacifico, da 40 anni stuntman professionista, 400 film all’attivo e un’Accademia fondata per insegnare ai giovani il suo mestiere -, che tra noi e gli attori nascano amicizie. In fondo rischiamo la vita al posto loro. E poi essere vestiti uguali, muoversi nello stesso modo, allo scopo di creare una sinergia, crea intesa. E’ raro trovare un attore spocchioso che non capisca quanto sia importante avere lo stuntman dalla propria parte».
Poi, certo, dipende dalle situazioni. Secondo Christian Garufi, nato sciatore e snowboarder, poi divenuto stuntman, membro della Taurus World Stunt Academy di Hollywood fondata dalla Red Bull, «è difficile che tra noi e gli attori nascano amicizie. Lavoriamo per diverse produzioni, quindi abbiamo a che fare sempre con persone differenti. Può succedere quando c’è una somiglianza fisica forte e allora si viene richiamati per lavorare con un interprete, anche se poi, sul set, si gira divisi in due unità, che si incontrano solo quando è indispensabile».
La crisi che Cliff Booth vive di riflesso, al fianco del suo compagno Rick Dalton, riguarda l’evoluzione dell’industria hollywoodiana, mutamenti ciclici di mode e tecnologie, che ogni volta investono nuovi settori. Oggi il lavoro degli stuntmen è minacciato dallo strapotere del digitale, tutto si può realizzare al computer, la verità conta di meno: «In percentuale - osserva Pacifico - direi che il digitale ha tolto agli stuntmen un 30-40% del lavoro. A mio parere si sta un po’ esagerando, c’è poca mano umana, negli Anni 80 era tutto molto fisico, adesso si fanno troppi giochetti, ne risulta un’immagine alterata, il film finisce per diventare un cartone animato». In futuro, sostiene Garufi, «ci sarà simbiosi tra le due tecniche. Non credo che, per ora, il nostro mestiere sia in pericolo, le persone vere costano meno di quelle digitalizzate. Se, invece, si va nel campo dell’impossibile, o meglio, del sovrumano, la tecnologia è indispensabile, anche per la nostra stessa sicurezza».
In Italia il problema ha radici diverse: «Il nostro cinema - riflette Pacifico - ha perso la cultura dell’azione curata, fatta da professionisti, spesso si ricorre ai dilettanti, oppure si affidano scene "stunt" alle comparse che, ovviamente, si fanno male, e infatti ci sono stati incidenti gravi. La qualità si è abbassata, più o meno dal 2000 è iniziata la decadenza, non a caso mi sono sempre concentrato sulle produzioni internazionali, in cui c’è molto più rispetto di questo che è un mestiere rischioso».
Le vie dei veri stuntmen sono infinite, e le loro storie non hanno niente da invidiare alla fantasia tarantiniana: «L’avventura più bella - confessa Pacifico - l’ho vissuta a Los Angeles, poi a Malta e in Thailandia, quando ho fatto la controfigura di Geena Davis per I corsari. Ero vestito e truccato come lei, che è molto alta, ma io sono longilineo, e alla fine ci stavamo». La favola continua a Cinecittà, dove Pacifico si è misurato con Daniel Day Lewis, sul set di Gangs of New York: «Ho fatto il coordinatore degli stunt e poi la controfigura di Day Lewis. Uno pignolo, non si accontenta mai. Gli stavo perfetto, siamo diventati amici». Il pericolo è il loro mestiere, gli stuntmen lo sanno: «Rischiamo più di un commercialista o panettiere - conclude Garufi - però, con l’adeguato allenamento e sagge decisioni, il rischio si può limitare di un bel po’. Se poi il destino lo vuole, può sempre accadere che vada storto qualcosa».