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 2019  settembre 17 Martedì calendario

Intervista al rettore della Bocconi

La nuova frontiera dell’insegnamento? «I programmi ibridi». Gianmario Verona, 49 anni, rettore da 3 anni della più prestigiosa università privata italiana, la Bocconi di Milano, torna in cattedra dopo qualche anno di pura gestione dell’ateneo e nella sua prima intervista decide di parlare del sistema universitario italiano. Più precisamente di quello che non va.
Cosa manca all’università in Italia?
«La risposta facile è gli investimenti. L’ultimo bando per la ricerca, per esempio, è del 2017».
Quella difficile? 
«La volontà di scardinare un sistema monolitico e poco flessibile». 
Quindi?
«Da questo governo mi aspetterei qualcosa di più della solita riforma dell’esame di maturità».
Perché ha deciso di ritornare in un’aula?
«Perché è la mia vera vocazione e poi, diciamo, per tastare la "customer satisfaction": dedicarmi alla didattica mi aiuta anche a verificare le innovazioni degli ultimi anni delle nostre aule, che ormai sono tecnologiche, e a sentire il polso della generazione Z che al di là degli slogan è davvero il nostro futuro». 
Cosa insegnerà?
«Economia e gestione delle imprese. Ma negli Usa sono più sintetici: management, semplicemente. In Inghilterra, anche». 
Le università anglosassoni sono un modello?
«Dovrebbero esserlo».
Perché? Si dice che le nostre università preparino meglio…
«Il punto è che il modello anglosassone garantisce flessibilità e differenziazione. Da noi non è ancora così».
C’è un nuovo governo: cosa chiederebbe al neo ministro dell’Istruzione?
«Di pensare a una riforma di lungo periodo, che metta in discussione un sistema che vuole le università uguali, non libere di andare sul mercato di docenti e studenti in modo competitivo e giocarsela. Le università devono poter definire con maggior libertà i programmi dei corsi di laurea, devono poter assumere i docenti migliori per i loro obiettivi e devono poter sperimentare».
Nessuna speranza?
«Niente affatto: la cosa buona di questo governo è che ha una vocazione europea e quindi mi auguro che ponga sull’università e sul mondo della scuola un’attenzione di lungo termine, non miope come accade di solito. Quindi mi aspetto una certa coerenza con il benchmark internazionale che dice due cose al momento molto distanti da quello che facciamo in Italia».
Ovvero?
«Non è possibile che tutte le università italiane facciano tutto e siano messe tutte allo stesso livello. Ci sono quelle con una vocazione più internazionale e ci sono quelle più connesse al territorio, quelle più vocate alla ricerca e quelle più organizzate per lo studio: queste differenze vanno valorizzate e non punite».
Quindi?
«Ogni università andrebbe valutata rispetto alla propria missione. Ad esempio: Milano ha chiaramente una vocazione internazionale. Allora che senso ha impedire al Politecnico di fare tutti i suoi corsi in inglese?».
Insomma, università di serie A e di serie B?
«Assolutamente no, questo è quello che di fatto abbiamo oggi. Significa semplicemente far crescere le università rispetto al proprio obiettivo e su quello valutarle».
Cos’è quello che lei chiama, molto bocconianamente, «il capitale umano»?
«Sono i professori. E qui c’è un tema di incentivi che non vuol necessariamente dire più soldi. In Bocconi, per esempio, a parità di risorse siamo passati da un sistema basato sull’anzianità a uno meritocratico: se pubblichi su riviste scientifiche di primaria importanza vieni premiato e fai strada. Così succede che professori ancora giovani talvolta guadagnino più di quelli anziani». 
Tutto qua?
«No. Poi c’è il problema dell’innovazione di contenuti e metodi didattici. Nelle nostre scuole e università abbiamo una buona preparazione culturale ma siamo ancora distanti dal mondo del lavoro. Dobbiamo introdurre nella scuola più matematica, più digitale, e potenziare la logica. In questi anni in Bocconi, per compensare, abbiamo reso obbligatori i corsi di coding e di critical thinking. Ma - cosa più importante - servono programmi ibridi che permettano di contaminare, per esempio, un percorso di matematica con la filosofia secondo il modello anglosassone dei major e minor. I metodi didattici infine vanno adattati a quello che oggi ci permette di fare il digitale».
È un’esigenza degli studenti?
«Non lo so, per ora sono imbrigliati fin dall’inizio in un percorso che anticipa sempre di più le loro scelte e che rischia di fargli perdere la visione d’insieme e quindi non chiedono… Ma se li aiutiamo offrendo percorsi che permettano di raggiungere una competenza molto verticale ma allo stesso tempo incardinata in un visione più ampia, aumentiamo la loro competitività sul mercato del lavoro. Quindi partiamo con più matematica al classico e più filosofia allo scientifico: pane quotidiano di qualsiasi grande azienda».
Mescolare, contaminarsi. Fate presto voi della Bocconi: siete privati e con fondi cospicui.
«In realtà contano le idee: questa settimana abbiamo inaugurato il nuovo corso di laurea in cyber risk organizzato dal Politecnico, università pubblica, e dalla Bocconi, privata. Contaminarsi è possibile».