il Giornale, 16 settembre 2019
Biografia di Luciano Castellini
«Io, sempre vice di Zoff. Normale: era più bravo di me. Con Dino siamo amici, ha fatto anche da testimone alle mie nozze. In allenamento mi rimproverava: Non rassegnarti a fare la riserva. Insomma, voleva che gli insidiassi il posto da titolare. Ma sapevo che non ce l’avrei fatta. Sarebbe stata un’impresa impossibile. Per chiunque».
Il rapporto umano e «agonistico» tra il lombardo Castellini Luciano e il friulano Zoff Dino potrebbe ispirare un trattato di «psicologia dello sport». Nella storia del calcio infatti non è documentata nessuna «vera amicizia» tra un «numero 1» schierato tra i pali e il «numero 12» seduto in panchina: il «secondo portiere» tende a detestare – potremmo dire, quasi «fisiologicamente» – il collega che lo costringe a non giocare e a guardarsi la partita da spettatore.
Va detto che ai tempi (anni ’70) di Castellini e Zoff il titolare scendeva in campo sempre e la sua riserva mai. Non come oggi, che vige la «politica dell’alternanza». E nel caso di Zoff – quel «sempre» – si è rivelato talmente apodittico da mandare quasi al manicomio tante vittime rassegnate dell’immarcescibile Dino bianconero; per conferma rivolgersi a dodicesimi «cronicizzati» come Piloni, Alessandrelli, Bodini... Ma Castellini era di un’altra pasta: campione, pure lui. Non meno popolare, amato e rispettato di Zoff.
E così, quando i guanti ghiacciati di Dino e quelli artigliati del Giaguaro («Il soprannome è opera di Gianni Brera», rivela Luciano) si incrociarono in Azzurro, tra i due si instaura un feeling senza precedenti in «letteratura». Zoff e Castellini: il «monumento» juventino contro il «mito» granata, e in mezzo una Torino che diventa quasi troppo piccola per due simili giganti. Nemici negli infuocati derby della Mole, amici al momento dell’Inno di Mameli nelle partite della Nazionale. Già, la Nazionale, dove Dino concede a Luciano l’onore di una sola gara, o meglio di un solo tempo (il secondo, ovviamente): Italia-Belgio del 26 gennaio 1977 (2-1 per gli Azzurri) con Castellini che subisce il gol su rigore calciato dal portiere avversario, Christian Piot.
Oggi il Giaguaro ha 74 anni, ammira Sirigu, l’attuale erede in maglia granata, ma nel suo vocabolario sentimentale la parola «rimpianto» non esiste: «Mi è piaciuto quello che ho fatto ma non vivo di ricordi. Non faccio retorica. Non sono tipo da quando c’eravamo noi il calcio era un’altra cosa.... Non uso la mia carriera sportiva come bastone per la vecchiaia», racconta al Giornale. Eppure c’è qualcosa che lega il passato al presente, la mente al cuore: è un pezzo di legno. Un oggetto insignificante? No, prezioso: «Anni fa – racconta Castellini – passai dal Filadelfia. C’era la traversa della porta su cui mi allenavo. La traversa di legno alla quale mi appendevo dopo ogni balzo, ogni guizzo, ogni deviazione durante gli infiniti allenamenti. Era per terra, fra l’erba alta, le pietre e i fossi. Ora io in casa mia ho un pezzo di legno. È un pezzo della porta del Filadelfia. È il mio più grande cimelio. Quando viene qualcuno a trovarmi e fra coppe, medaglie e trofei vari vede quel pezzo di legno e mi chiede cos’è quell’affare lì?, io rispondo: È il pezzo pregiato. È il mio orgoglio, quel pezzo di traversa del Fila. Una reliquia. È la cosa più importante che ho». Da quando le luci della ribalta si sono spente, Luciano non ha mai smesso di farsi illuminare dai riflessi del lago di Como dove vive felice con moglie e nipoti, orgogliosi di quel «nonno famoso» che ha reso epico lo scudetto del Toro nella stagione ’75-’76, conquistato con Gigi Radice allenatore e gente come Graziani, Sala e Pulici compagni di squadra. E di scorribande. Piccole cose: «Al massimo qualche scherzo telefonico a mister Giagnoni la notte prima del derby. Lui rispondeva, gli dicevo Forza Juve! e mettevo giù. La mattina lui raccontava: Uno str... non mi ha fatto chiudere occhio.... Gli ho confessato che il colpevole ero io, ma solo 30 anni dopo... Era ancora incazzato, e scherzosamente mi dette uno scappellotto». Neppure Luciano riusciva a prendere sonno prima delle gare importanti: «Era più forte di me, la tensione mi faceva rimanere in perenne stato di veglia...». Come un soldato di guardia alla sua porta. L’anno dello scudetto granata si sognava rigorosamente ad occhi spalancati: «Quel successo è una parte di noi, è la nostra vita. Quando vinci uno scudetto con la maglia del Torino, tutto ciò che hai fatto prima e quello che farai dopo non conta più nulla».
Nell’appassionante biografia che Flavio Pieranni e Fabrizio Turco gli hanno dedicato, c’è un identikit che raffigura corpo e anima del campione: «È lui l’ultimo eroe romantico a guardia dei pali. Quello che con le sue uscite coraggiose sui piedi degli avversari rischiava ogni volta testa e gambe. Quello che volava all’incrocio dei pali e ci portava con sé a conoscere mondi per noi inesplorati; perché quando agguantava il pallone ci sembrava di essere andati lassù anche noi. Quello che ci faceva capire che una parata valeva spesso più di un gol e che in un mondo in cui quasi tutti sognavano di diventare attaccanti e di sfondare reti, ci faceva venire voglia di giocare in porta, di essere un po’ tutti Giaguaro».
Del resto, se non fosse stata la persona eccezionale qual è, l’Inter non l’avrebbe adottato 28 anni fa per fargli spiegare calcio ai ragazzini, ma anche ai campioni, considerato che nel glorioso palmares di Castellini non mancano due parentesi da allenatore in prima squadra: «L’Inter è nel mio cuore. La prima squadra? Ho compreso che potevo fare l’allenatore, ma che allo stesso tempo ho capito che volevo qualcosa di diverso».
Ma la diversità, per un tipo come Luciano, è sempre stata una variabile non impazzita, ma impastata a valori che sanno di antico. E poi c’erano loro: le parate spericolate che incantavano i tifosi, le uscite coraggiose sui piedi dell’avversario. Senza paura, con l’acrobatica spavalderia di un cavaliere guantato. Ardore e lealtà. Uno abituato a farsi rispettare. Senza bisogno di farsi tatuare frasi solenni o animali feroci. La sofferenza? Fa parte della vita di un uomo, figuriamoci di quella di un portiere. Una prova? Guardate sul web il video dell’entrata-killer di Romeo Benetti durante un derby d’antan Juve-Toro, col Giaguaro che, ferito e sanguinante, si trascina nella savana dell’area piccola, senza mai mollare la preda: il pallone. È un filmato che fotografa l’indole di Castellini molto meglio di tante parole.
Eccolo il segreto che, forse, unisce Castellini a Zoff: il mistero delle parole non dette. Come quando, due anni fa, Dino stette male e Luciano pregò in silenzio per lui: «Sei forte, vincerai anche questa partita».
E così è stato.