Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2019
Affitto lungo in crisi nelle grandi città
Il boom degli affitti brevi cambia il volto dei centri storici, alimenta l’emergenza abitativa e spacca in due il mercato della locazione. Il fascino di una maggiore redditività, da verificare comunque caso per caso, contribuisce ad allontanare i proprietari dalle formule contrattuali tradizionali, già penalizzate dal rischio morosità e dalla rigidità di normative vecchie da decenni. Tanto che nelle città turistiche, vicino ai luoghi d’arte e nelle zone universitarie l’offerta resta sguarnita: secondo operatori e inquilini, la domanda di soluzioni abitative stabili da parte di coppie, famiglie e studenti fatica a trovare risposta. E dalle strade spariscono i cartelli «Affittasi».
La flessione del 4+4 nei centri urbani
L’erosione dell’offerta, soprattutto dei tagli più piccoli (monolocali, bilocali e piccoli trilocali), emerge da tre indicatori di mercato riferiti alle grandi città: nell’ultimo biennio gli annunci «affittasi» con proposte di lungo periodo, sono calati del 7% su Immobiliare.it, con una flessione più accentuata a Milano (-8%); nello stesso arco di tempo i canoni sono lievitati del 2%, con picchi del 7% a Bologna e Firenze e del 10% a Milano; i tempi medi per locare un’abitazione si sono ridotti drasticamente (del 17%). Gli alloggi che arrivano sul mercato ci restano pochissimo (in media 2,9 mesi, a Milano 1,8), a conferma del fatto che la domanda resta elevata.
L’impatto del fenomeno Airbnb
È probabile che la tensione sui canoni e la riduzione dell’offerta derivino in parte dal fenomeno “affitti brevi”, non rilevato dai dati ufficiali. Gli affitti non superiori ai 30 giorni, infatti, non hanno l’obbligo di essere registrati e resta inattuato il decreto legge 34/2019 che prevede una banca dati, con tanto di obbligo di registrazione per i proprietari e attribuzione di un codice alfanumerico
per ciascuna unità.
Tracciare i confini del fenomeno non è facile, anche per la presenza di un’indeterminabile quota di sommerso. Gli unici dati ufficiali sono quelli delle Entrate e indicano che il numero di nuovi contratti lunghi registrati ogni anno è rimasto stabile dal 2015, poco sotto la soglia di 1,4 milioni. Ma il peso dei tradizionali 4+4 è calato del 13%, mentre è cresciuto quello dei concordati 3+2 (+18%) e di quelli per studenti (+56,3%). Questa è una buona notizia per gli inquilini, perché i contratti concordati – che sfruttano il volàno delle nuove intese territoriali e della cedolare secca al 10% – sono uno strumento di contrasto all’emergenza abitativa. Ma l’impressione che in certe zone l’offerta sia ormai carente rimane.
I numeri del fenomeno Airbnb, una delle piattaforme di riferimento per la locazione turistica, parlano da soli: a luglio 2019 erano circa 416mila gli annunci disponibili sul portale, capaci di offrire oltre 1,8 milioni di posti letto. Un altro indizio dell’esplosione delle formule brevi lo si trova nelle statistiche delle Finanze sulle dichiarazioni fiscali. I locatori che scelgono la cedolare secca al 21% sono quadruplicati rispetto tra il 2011 e il 2018 (da 439mila a 1,6 milioni): non sappiamo quanti di loro abbiano locato la casa per singoli periodi fino 30 giorni, ma nel totale ci sono anche loro.
Il test della convenienza tra breve e lungo
La prospettiva di rendimenti maggiori è allettante sopratutto nelle grandi città. Secondo Sweetguest, società di gestione di affitti brevi (si veda l’articolo a pagina 15), in centro a Milano un quadrilocale di pregio di circa 160 metri quadri può generare oltre 75mila euro l’anno e un bilocale arriva fino ai 30mila. Secondo la società, il vantaggio rispetto all’affitto lungo inizia a farsi sentire per gli immobili adatti anche altrove: la redditività è superiore del 207% a Matera, del 60% a Siena, del 100% a Treviso e del 200% a Padova, sia in centro che in periferia.
Numeri a parte – sempre da verificare in base al tasso di occupazione e alle caratteristiche dei singoli alloggi – a pesare sull’affitto lungo è anche il rischio per il locatore di dover pagare le imposte su canoni non percepiti (i correttivi introdotti dal Dl 34/2019 si applicheranno solo alle locazioni stipulate dal 2020) e la necessità di impegnarsi per più anni. Le richieste di flessibilità e la crescente precarietà degli inquilini si scontrano con una normativa molto rigida, soprattutto
per i contratti transitori.
In provincia la situazione è diversa
Se questo è lo scenario nelle grandi città, il mercato resta però spaccato in due. Nei piccoli centri e nelle aree poco collegate, la situazione è rovesciata: i proprietari dei 5,7 milioni di case che il Fisco considera “abitazioni a disposizione” spesso non riescono a trovare inquilini né compratori. E continuano a pagare l’Imu e la Tasi su valori catastali obsoleti, sopportando un tax rate sul valore di mercato molto più elevato di quello di chi possiede immobili nelle metropoli.