La Stampa, 16 settembre 2019
Alzheimer, mancano servizi e fondi
«Il medico ci mostrò un groviglio di filamenti scuri e e secchi ci disse: questa è una matassa formata da foglie di una pianta di mare, la posidonia. Ecco, nel cervello di una persona ammalata si formano accumuli di proteine tossiche che assomigliano a questo garbuglio, e che poco a poco lo invadono. Al momento non sappiamo molto altro». Da quella diagnosi sono trascorsi più di 12 anni. La protagonista di questa storia di Alzheimer avrà presto 81 anni. La ricerca non ha fatto passi avanti, la malattia sì. Giovanna ha smarrito una dopo l’altra le parole, non è più in grado di mangiare da sola né di camminare, perché l’Alzheimer non ruba solo i ricordi: cancella poco per volta tutte le capacità, ogni cosa appresa durante una vita intera, compresi gli schemi motori. Quello che in lei la malattia non è riuscita a cancellare è l’amore. Il sorriso, la capacità di essere felice per l’abbraccio di una persona cara. Eppure l’amore che rende la vita sempre degna di essere vissuta non basta. In questi anni, mentre il numero dei malati aumentava fino a raggiungere cifre da emergenza globale (46,8 milioni di persone soffrono di una forma di demenza nel mondo, quasi 1,3 persone in Italia, più della metà delle quali è affetta da Alzheimer) la ricerca ha subito uno stallo e, soprattutto, è mancata l’attenzione da parte delle istituzioni, con servizi distribuiti in modo insufficiente e ineguale sul territorio nazionale, risorse ridotte all’osso e famiglie in sempre maggiore affanno per l’assistenza, a causa dei costi. Dallo stipendio per la badante agli ausili, fino ai farmaci e all’assistenza medica specialistica, la spesa infatti può oscillare da mille a tremila euro e oltre.
I fondi mai erogati.
Nel 2030 in Italia, secondo le stime, gli ammalati saranno oltre 1,6 milioni. Nel 2050 sfioreranno quota 2,3 milioni. Ma il nostro Paese non è preparato. «Nel 2014 l’allora ministro Beatrice Lorenzin ha firmato il Piano nazionale demenze, mai finanziato. Le parole in questo caso non contano nulla: senza i finanziamenti come si fa per esempio a fare la formazione? - chiede Gabriella Salvini Porro, presidente della FederazioneAlzheimer Italia, che nei mesi scorsi aveva più volte chiesto con telefonate e lettere all’ex ministra Giulia Grillo una risposta arrivata dagli uffici solo a luglio e comunque generica: «"Vi faremo sapere", ci hanno detto. Ci auguriamo che il nuovo ministro sia più comprensivo. La vita media aumenta e i sistemi sanitari di tutti i Paesi sono in difficoltà, perché questa malattia dura e costa molto. Ma esiste, i malati esistono, e bisogna fare qualcosa, o il sistema inevitabilmente prima o poi esploderà».
Dai giorni disperati di quarant’anni fa in cui Gabriella Salvini scoprì la malattia della madre e si accorse che anche sui libri di medicina «c’era solo mezza paginetta», molte cose sono cambiate. Soprattutto su impulso delle associazioni dei familiari. Oggi la Federazione conta 24 città in cui sono presenti "comunità amiche" delle persone con demenza, esistono progetti avanzati, come quello di assistenza odontoiatrica di Milano, o luoghi in cui svolgere piccole attività per occupare il tempo e stare insieme. «Ma quello di cui ancora oggi le famiglie hanno bisogno sono le informazioni, così come sono fondamentali la formazione di chi assiste e l’aumento delle ore di assistenza pubblica. I costi, che sono elevati: in Lombardia il ricovero va da 2500 a 3000 euro al mese. E restano lo stigma della malattia e la paura».
La solitudine delle famiglie.
È amara Annamaria, che a Milano assiste il marito Luigi, ex imprenditore, 80 anni, entrato e uscito da due diverse sperimentazioni, entrambe sospese (l’ultima due giorni fa) per mancanza di risultati: «Mio marito sta ancora bene, si veste e mangia da solo, porta fuori il cane, prende la metro per andare dal medico. Dimentica le cose, sì. Ma quando gli amici hanno visto che era "strano" si sono allontanati». «Ancora oggi c’è una quota di anziani, tra il 20 e il 30 per cento, che non afferisce ai servizi - rivela Marco Trabucchi, psichiatra, presidente dell’Associazione italiana di Psicogeriatria - sono nascosti, le famiglie si vergognano. La malattia fa paura, non esistono cure radicali, occorrono soldi che nessuno mette in campo per riorganizzare il sistema. Il Piano nazionale non ha avuto un euro, parole al vento». Ma il grande problema, sottolinea, è la mancanza di un follow-up: «Dalla diagnosi alla morte trascorrono 8-10 anni e in questo periodo nessuno si assume la responsabilità di accompagnare i malati e le famiglie, con la medicina di famiglia che non ha ancora assunto un ruolo. La prima cosa da fare è questa: dare ai Centri per i disturbi cognitivi e le demenze (Cdcd) modalità per accompagnare le persone. Personale non solo per le diagnosi, ma per consigliare, fare le visite di controllo, parlare coi medici di famiglia. Un riferimento sempre e subito, per sapere cosa fare se l’ammalato si rompe il femore, per esempio. E riorganizzare le case di riposo, dove ormai il 75% degli ospiti ha la demenza, formare il personale. Questo cambierebbe la faccia all’assistenza». Ma è indispensabile anche un radicale cambiamento nella sanità ospedaliera, dove ancora oggi non esistono percorsi dedicati e gli ammalati di Alzheimer, fragili e spaventati, costretti a mettersi in fila nel caos dei pronto soccorso o a essere ricoverati con gli altri pazienti in reparti dove nessuno è preparato ad accoglierli. «Tuttavia - conclude Trabucchi da Treviso, dove si è conclusa ieri la terza edizione dell’Alzheimer Fest - la malattia non cancella la vita, come dimostra questa iniziativa: si fanno cori, si cucina, si fa attività fisica. Le persone ammalate possono gustare le cose belle».
La ricerca in affanno.
Con la ricerca in stallo e a disposizione solo medicine sintomatiche «dai risultati modesti», la qualità della vita è l’obiettivo principale. «Farmaci da cui ci si aspettava molto non hanno dato i risultati sperati, ma questo non significa essere rinunciatari - spiega Stefano Cappa, professore di Neurologia allo Iuss di Pavia e direttore scientifico dell’Ircss San Giovanni di Dio di Brescia - Tutti i principali gruppi di ricerca stanno cercando nuovi campi da esplorare: finora ci si è indirizzati sui farmaci antiamiloide, ma ora c’è attesa per i farmaci che agiscono sull’altro meccanismo importante della malattia, ovvero l’accumulo di proteina Tau. Di certo l’idea che rimuovere la proteina amiloide sia la formula magica non è stata confermata». La verità è che, se è ormai chiaro cosa accade nel cervello di un ammalato, manca ancora chiarezza persino sulle cause: «Si è capito che l’accumulo delle proteine non è automaticamente sinonimo di malattia. Questo ha portato a interessanti analisi sulla prevenzione. Si sa per esempio che l’esercizio fisico sembra avere effetti protettivi, così come mantenere il cervello attivo. Per questo manteniamo l’enfasi sulla diagnosi precoce, per capire se riusciamo a intervenire sulla storia naturale, rallentando la comparsa dei sintomi».