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 2019  settembre 16 Lunedì calendario

Gli scritti militanti di Giovanni Raboni

Sono passati quindici anni esatti da quando è morto Giovanni Raboni. E a leggere le sue recensioni sembra passata un’era geologica. Chi mai, oggi, oserebbe proporre, come faceva Raboni sul «Corriere» nel 1996 un «ministero delle Minoranze» in alternativa alla nascente definizione di ministero della Cultura, con la convinzione che il nostro Paese potesse migliorare solo trovando «il coraggio di agire in risoluta controtendenza rispetto alla regola dell’audience, del più vasto consenso possibile ottenuto con ogni mezzo possibile». La ricerca del consenso, secondo Raboni, «ha letteralmente dominato e stravolto, negli ultimi decenni, tutti i settori della vita culturale italiana»: ed è difficile dargli torto ora che sappiamo che davvero si trattava non di una «rivoluzione culturale» o di una «salutare ondata di democrazia», ma di una «solenne ubriacatura di populismo e qualunquismo». Da qui l’accusa all’informazione culturale di assecondare «la fascinazione del fasullo, la schiavitù degli stereotipi, la dittatura della trivialità». 
La proposta di Raboni, così dolorosamente elitaria per un intellettuale di sinistra, si ispirava a quell’ideale formativo che sempre più è stato bollato quale snobistico moralismo o arroganza radical chic. Fatto sta che il cosiddetto radical chic ha ceduto il passo al «radical clic», al pensiero unico del «like» che Raboni ha fatto in tempo a presentire. E ricorda giustamente Luca Daino, nell’introduzione al volume di scritti militanti raboniani su letteratura, cinema e teatro ( Meglio star zitti? appena uscito negli Oscar Mondadori), che un tale rigore non poteva non condurlo «all’isolamento, sia pure addolcito da una vasta aura di autorevolezza». È stata indubbiamente una grande sconfitta storica. 
Certo, Raboni non aveva intenzione di stare zitto se fu battezzato «il Re Censore»: nessuna complicità con il circo mediatico e nessun cedimento alla furbizia mercantile dell’industria culturale (in cui peraltro era stato protagonista, dirigendo riviste e passando da Garzanti alla Guanda prima di cominciare a collaborare per i giornali). Di questa sua severità altera è testimonianza il succulento (direi godurioso) libro che percorre un quarantennio di stroncature (solo 170 delle innumerevoli), tenendo presente che per Raboni la critica era sempre critica della cultura, anche quando si concentrava su un singolo minuscolo oggetto artistico. Le sue erano recensioni esemplari: chi volesse dedicarsi alla critica militante potrebbe partire studiando il metodo Raboni. Che era sulla carta un metodo affabile e variabile (l’«arte del dubbio»), ma concettualmente ferreo, con alcuni punti irrinunciabili: descrizione del libro o dello spettacolo, inserimento nella carriera dell’autore e nella costellazione contemporanea, analisi dello stile, giudizio di valore motivato dalle premesse; cautela argomentativa ma chiarezza di opinione. Per fare questo bisognava disporre della enorme cultura di Raboni, della sua curiosa generosità che lo portava a macinare selettivamente ciò che usciva, avere la sua spietatezza e lucidità illuministica capace di tradursi in nitore della scrittura. 
I pezzi memorabili (non ci sono quelli sulla poesia, già editi in volume) sono molti, e sempre mettono in mostra quella attitudine al contraddittorio che sulla pagina, nella preoccupazione di «far apparire l’oggetto» (cioè di ascoltare il testo, osserva opportunamente Daino), diventa quasi un dialogo in presa diretta con il lettore e con l’autore. Che si conclude con l’acutezza geniale della sintesi fulminea, mai sbrigativa. Se qualcuno volesse un solo esempio, vada alle pagine 122-129. In un pezzo dell’86, apparso sull’«Europeo», Raboni discuteva il sistema dei valori vigente, capovolgendo alcuni luoghi comuni: Montale considerato «con unanimità impressionante e un po’ sinistra», il maggior poeta del secolo? No, meno grande di Clemente Rebora, Delio Tessa e Umberto Saba. E forse anche di Ungaretti, Sereni e Luzi. I coetanei Moravia e Soldati? «Soldati è nel complesso scrittore decisamente più robusto», «maestro di ambiguità e sfumature Soldati, di chiarezza e dimostratività Moravia». Buzzati è un «abile divulgatore e manipolatore di alcuni temi della grande letteratura fantastica otto-novecentesca», un «Kafka dei poveri» a confronto di Landolfi. La «penna stilografica caricata ad acqua» di Guido Morselli è meno originale della scioltezza di Piero Chiara, che ha «davvero la scrittura nel sangue». 
Calvino, specialmente il secondo («più nobiltà che forza»), deve cedere il passo al «furioso senso della realtà» del maggior narratore italiano della sua generazione, Paolo Volponi. Tra i due conservatori «sovversivi» Testori e Ceronetti non c’è storia: il primo ha «non simulate linfe barocche», il secondo è più scrivente che scrittore. Citati è un «divulgatore e “mimo” letterario”» se paragonato con Cesare Garboli, il più «sottilmente bravo di tutti» i narratori di personaggi della letteratura. Infine, tra Daniele Del Giudice e Franco Cordelli, è il secondo a rivelare «la capacità, la forza di concepire e realizzare un sistema lessicale, sintattico, ritmico, insomma stilistico, organico e soprattutto coerente (eticamente coerente) a ciò che il racconto vuole essere». Ce n’è per tutti: classici della contemporaneità, come Hemingway, Kundera, Pasolini e Woody Allen, e anche per gli scrittori che «facevano», allora, in diretta e in vita, la cultura e la letteratura italiana: Fo, Eco, Tabucchi, Busi, Vassalli, Tondelli... Senza sconti. E con un coraggio oggi impensabile.