Le religioni nel mondo sono 30 mila. Probabilmente quante le tribù del mondo. Le divinità molte di più, da 100 mila al doppio. Quelle degli esquimesi stanno nel ghiaccio, quelle dei pigmei nella foresta. Gli dei dell’Isola di Bali dormono sul vulcano Agung. Sono divinità con pieni poteri sui terremoti, la siccità, le crisi esistenziali. E sulla morte, naturalmente, anche se noi non li prendiamo troppo sul serio. Nelle religioni monoteiste, i nostri dei abitano in cielo, ma specialmente nei libri. Libri che abbiamo preso talmente sul serio, nel corso del sangue versato per secoli, da averli definiti sacri: la Bibbia, il Corano, la Torah. I quali raccolgono racconti orali tramandati per migliaia di anni da tribù nomadi di pastori mediorientali.
Che le nostre civiltà hanno coltivato con l’inchiostro della dottrina e con il ferro delle leggi. Trasformando ogni dettaglio delle loro cosmogonie nel dogma in forma di mattone, e ogni mattone in una cattedrale o un minareto, o un muro. In una sentenza di vita o di morte spirituale. Ma che al fondo conservano le loro ancestrali radici di quelle civiltà pastorali, agnelli da sacrificare per salvare il mondo, regole per esercitare la vendetta e qualche volta il perdono. Gerarchie per tramandare il potere indiscutibile dei maschi. E il ruolo ornamentale delle donne.
Semplificando fino all’essenziale, ci sono due ordini di religioni. Quelle che si siedono davanti al mistero della vita, parlandoci della profondità del cielo stellato, della vertigine del tempo e del fine ultimo della creazione, suscitando in noi emozioni e qualche volta conforto. Sono quelle che Yuval Harari chiama “la religioni fatte di domande”.
Poi ci sono le (nostre) religioni fabbricate con il filo spinato delle risposte. Quelle che ti dicono “con la precisione del legislatore” come è fatto dio, cosa pensa, cosa dispone per sé e per noi. Come è fatto il mondo. Chi siamo. Cosa dobbiamo mangiare, bere, sognare. Come fare sesso e quando. Cosa dobbiamo leggere, scrivere, recitare. Come dobbiamo lavarci, pregare e vestirci. Se mettere il velo alle donne, o la barba agli uomini. Quali riti compiere per assecondare i suoi desideri, se uccidere un montone o un infedele. E questa è la religione di cui parla “la gente raccolta intorno al rogo di un eretico”.
Come e quando morire fa parte di quelle regole. In un certo senso le giustifica tutte dal momento in cui attribuisce a dio e non a noi la proprietà esclusiva della vita. Dalla quale discende la sua sacralità. Anche se non è poi così sacra quella che viviamo sulla terra, dove infinite sofferenze e ingiustizie sono consentite in attesa di quella ultraterrena.
Negando agli uomini la libertà di decidere il proprio destino in punto di morte, le religioni fondano la loro pretesa di governare l’intera vita dei vivi. La nostra sottomissione. Per questo, liberandoci dal dolore di una cattiva morte, l’eutanasia ci affranca da un potere che ancora ci tiene sotto tutela. Prosperando nel punto più debole della nostra vita. Per chiederci in cambio tutto, l’anima, la testa, il cuore.