Una delle infrastrutture colpite, la raffineria di Abqaiq dell’Aramco, è il maggior impianto petrolifero del mondo. Nel complesso, gli attacchi hanno dimezzato la capacità produttiva saudita, da 10,3 a 4,8 milioni di barili al giorno, il 6% della produzione mondiale. Anche la produzione di gas è stata dimezzata. Potrebbero servire settimane per recuperare. L’Aramco però ha sempre sostenuto di essere in possesso di una struttura di backup assai sofisticata e di poter supplire immediatamente con altri impianti a improvvisi gap di produzione. Il regno dispone poi di abbondanti riserve pronte all’uso, anzi durante le dispute di due anni fa quando si trattava di ridurre la produzione per sostenere i prezzi, affermò di poter esportare il doppio di quanto concordato. Per di più parte delle chiusure degli impianti coinvolti, ha rivelato una fonte saudita al Financial Times , sarebbero state solo precauzionali e dovute a questioni di inquinamento. Ma sono affermazioni tutte da verificare, in parte probabilmente connesse con il fatto che l’Aramco entro fine anno dovrebbe essere quotata in Borsa, operazione a lungo rinviata, con un maxi-collocamento da più di mille miliardi di dollari.
• Quali saranno le conseguenze sulle quotazioni del greggio alla riapertura dei mercati in mattinata?
Gli analisti si interrogano sulla durata dello shortage. I dirigenti sauditi hanno rassicurato che la potente operazione di recupero scattata porterà entro pochi giorni a reintegrare la produzione. Ma gli osservatori internazionali sono più cauti: si prevede un rialzo del greggio di riferimento Brent, che ha chiuso venerdì a 60 dollari, nell’ordine di 5-10 dollari già oggi.
Sarebbero immediate come sempre le ripercussioni sulle compagnie occidentali e quindi sul prezzo della benzina, oltre che sui mercati finanziari. Ma non manca chi teme che le quotazioni – già salite del 12% dall’inizio dell’anno sull’onda proprio delle tensioni fra Arabia Saudita e Iran – possano arrivare a 100 dollari entro la fine dell’anno, con conseguenze pesanti sull’economia mondiale già provata dalla guerra dei dazi (anche se proprio la semi-recessione in Paesi importanti può contribuire a un calo della domanda). Infine, il riacuirsi della tensione all’interno dell’Opec fra Riad e Teheran, primo e secondo produttore di greggio, sarà una delle conseguenze di lungo termine.
• Qual è la risposta internazionale?
Gli Stati Uniti, dove è in corso un complesso rimpasto fra i responsabili della sicurezza nazionale (dopo il licenziamento del falco Bolton il greggio era sceso per le rinate prospettive di distensione con l’Iran), hanno dato qualche disponibilità a reintegrare parte delle quote perse grazie alle Strategic Oil Reserves. Ma Washington ha anche più riservatamente e con un certo imbarazzo reso noto che non è che lo shale oil Made in Usa, protagonista di un recente sorpasso sul greggio saudita per quantità esportate (poi rientrato), potrà aiutare molto perché alla vigilia dell’inverno è forte la domanda per gli inventari nazionali. È coinvolta anche l’Agenzia Internazionale per l’Energia, che pure ha detto di avere capacità limitate. L’ultima operazione dell’Aie risale al 2011 in occasione della guerra civile in Libia quando intervenne con 1,7 milioni di barili al giorno. Ma l’intervento fu scarsamente utile.
• E quali le conseguenze all’interno dell’Opec?
Ammesso che Riad decida di chiedere la solidarietà di altri Paesi esportatori per reintegrare le quote perse, è da escludere ovviamente che questa arrivi dall’Iran. E neanche dall’Iraq, che sta giocando un ruolo ambiguo secondo alcuni osservatori nella vicenda (c’è il sospetto di coinvolgimento delle milizie sciite). Restano i Paesi del Golfo (Bahrein, Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait) che malgrado siano legati dal 1981 da un trattato di cooperazione sono più che mai divisi, dalle accuse di terrorismo che hanno isolato il Qatar alla stessa guerra in Yemen. E sono quindi tutt’altro che pronti a correre in soccorso dell’Arabia Saudita.