La Stampa, 15 settembre 2019
Biografia di Paul Auster
«Io credo che New York debba separarsi dal resto degli Stati Uniti». È una battuta che Paul Auster ripete spesso, e, sebbene sorrida, ti rendi conto che scherza fino a un certo punto «…intendo che deve diventare del tutto autonoma, un vero e proprio stato a parte: mi spieghi cosa ha in comune un abitante di Coney Island o del Lower East con uno di El Paso o di Oklahoma City?».
A quel punto scoppia a ridere, sa bene che è un’idea impossibile, ma qualcosa lo mantiene legato attaccato quel progetto, che definisce «romantico». Quando un accademico del Nobel accusò la letteratura americana di essere insulare, Paul fu tra i primi a condannare quel giudizio «ignorante e in primo luogo triste»: ama il paese che ha accolto i suoi antenati provenienti dall’Alsazia, ma si sente a casa nella sua Brooklyn, dove vive in una bellissima townhouse insieme alla moglie Siri Hustvedt. Da quando lo conosco, abbiamo discusso a lungo sul tema dell’identità e dell’anti-americanismo, che lui mi definì come «una degenerazione ottusa e demente, che spesso abbiamo contribuito ad alimentare proprio noi americani». Una volta lo provocai dicendo che chi odia l’America tende a considerare New York come qualcosa di assolutamente diverso dal resto del paese, mentre chi la ama vede nella metropoli la prima concretizzazione della promessa americana.
«Forse è così», mi disse «ma la vita è troppo breve per aspettare che tutto il paese divenga come New York». È un liberal sinceramente impegnato nelle battaglie civili Paul, e spiega: «Sono molto più di sinistra di quanto sia il partito democratico americano, ma continuo a votarlo perché dubito che nel mio paese un candidato socialista possa mai vincere». Definisce «jihadisti» gli esponenti della parte più estrema della destra repubblicana, ed è assolutamente preoccupato per «la deriva populista in cui sono sprofondati oggi gli Stati Uniti: mai nella vita mi sarei aspettato di rimpiangere George W. Bush. Non vedo come possa esistere qualcosa di peggiore dell’amministrazione Trump: è l’avvenimento più sconcertante e terribile a cui abbia mai assistito in politica».
È nato a Newark, nel New Jersey, cittadina che ha dato i natali anche a Philip Roth, del quale è stato amico e con cui parlava quasi esclusivamente di baseball: era un patto tacito tra scrittori, al quale aderiva spesso anche Don De Lillo. Dopo essersi laureato alla Columbia si è trasferito per quattro anni in Francia, dove ha cominciato a scrivere poesie e narrativa, traducendo parallelamente le opere di Stéphane Mallarmè e di Joseph Joubert. Ancora oggi parla con grande emozione di quegli anni, determinanti per la propria formazione, e per la riflessione sull’identità, tema centrale di tutta la sua narrativa. Non è mai stato convinto, tuttavia, dalla definizione di autore postmoderno, e una volta ha spiegato a un critico, che ne dava per certa l’influenza, di aver letto un solo saggio di Lacan. Preferisce da sempre parlare dei generi che ama, in particolare il thriller, e degli autori che lo hanno veramente formato: Poe, Beckett e Hawthorne.
A chi gli fa notare che uno degli elementi ricorrenti della sua poetica è la presenza, quasi sempre tragica, del caso, racconta che nulla nella vita lo ha sconvolto come l’aver assistito alla morte di un ragazzino colpito da un fulmine. Aveva soltanto quattordici anni, Paul, e ancora adesso si chiede perché quel lampo non abbia ucciso lui ma quel giovane sfortunato. Oggi dice di aver capito da tempo che il suo modo per rifiutare la dittatura del caso è passare più tempo possibile con le persone che ama, a cominciare da Siri, la figlia Sophie e amici come Orhan Pamuk o Salman Rushdie. Ama conversare, confrontarsi, conoscere, e soprattutto godere i tempi lenti con il piacere di una buona bottiglia di vino. E si entusiasma specialmente con persone dal retroterra diverso dal proprio: diventò molto amico di Carlos Fuentes, con il quale parlavano spesso di cinema, partendo dalle esperienze di giurati nei Festival: «Niente di più temibile di un brutto film dal tema nobile», raccontava Fuentes, e Paul aggiungeva «esiste una cosa peggiore: quando quel film lo ha fatto un tuo amico». Una sera, a una cena in cui partecipò anche Jim Jarmusch, dichiarò che il film più bello di tutti i tempi era Le catene della colpa e anche in quel caso scherzava sino a un certo punto. Era il periodo in cui il cinema era diventato per lui anche un modo per esprimersi artisticamente, e viveva questa esperienza con un misto di umiltà e grandissima passione. Mi ha sempre colpito che tra i suoi film preferiti ci siano quasi esclusivamente pellicole francesi, in particolare di Renoir e Bresson, oltre ad Aurora di Murnau. Quando l’ho sollecitato a dirmi almeno un titolo americano mi ha citato I migliori anni della nostra vita di William Wyler, confermando quanto ami un’America che gli sembra scomparsa: un paese generoso, aperto al resto del mondo e pronto a sacrificarsi per ideali di democrazia e libertà.
È arrivato quasi per caso alla regia, dopo che un suo magnifico racconto natalizio venne pubblicato sul New Yorker. «Sfruttammo i 15 minuti di popolarità che godeva allora Wayne Wang, reduce da The Joy Luck Club, e adattammo sullo schermo Smoke con un entusiasmo giovanile: non ci aspettavamo un successo del genere». Il risultato fu sorprendente per tutti, e Paul divenne improvvisamente un punto di rifermento del cinema indipendente, ma a cominciare da Blu in the face nessuno dei film successivi ebbe lo stesso esito, e presto divenne per lui insostenibile la pressione di un mondo troppo diverso da quello a cui lo aveva abituato la scrittura: produttori, agenti, publicist, manager, per non parlare delle incertezze e l’angoscia relative ai finanziamenti.… nulla di più lontano da un uomo che ha dato a un proprio libro il titolo L’invenzione della solitudine. Non che la letteratura rappresenti un momento di tranquillità: Paul, la definisce piuttosto una necessità che ha qualcosa di puramente fisico: «Non si sceglie di diventare uno scrittore come si sceglie di diventare un pompiere o un medico. Per molti versi si può dire che si è scelti». Non è certo sorprendente che il successo in Europa sia persino superiore che in America, e fa impressione sentirlo affermare: «Mi sento sempre un esordiente, e mi scontro con le stesse difficoltà, gli stessi blocchi e le stesse disperazioni. Scrivendo si fanno così tanti errori, si creano così tante brutte frasi e idee, si buttano così tante pagine, che alla fine capisci quanto sei limitato. È un’occupazione umiliante».
Ha raggiunto i settantadue anni, e sa che l’arte come necessità è qualcosa che non lo abbandonerà mai. E che l’umiliazione porta sempre con sé la prospettiva della redenzione. È per questo che ha deciso di non cambiare le abitudini: «Ho sempre scritto a penna, quasi sempre con uno stilo, ma a volte con una matita, specie per le correzioni. Se potessi scrivere direttamente con una macchina da scrivere o un computer lo farei, ma le tastiere mi hanno sempre intimidito. Una penna è uno strumento molto più primitivo. Hai la sensazione che le parole escano dal tuo corpo e che tu le incida nella pagina: per me scrivere ha avuto sempre una qualità tattile. È una esperienza fisica».