La Lettura, 15 settembre 2019
Intervista allo scrittore Joël Dicker
L’autore di romanzi intricati, pieni di personaggi e colpi di scena, lunghi tra le 400 e le 600 pagine come La verità sul caso Harry Quebert, Il libro dei Baltimore o La scomparsa di Stephanie Mailer da ragazzo cominciava a scrivere ma si fermava subito, proprio all’inizio della storia. Joël Dicker adolescente era sicuro di volere scrivere ma balbettava sulle pagine, non riusciva ad andare avanti. La maledizione si ruppe con La tigre, racconto breve ambientato nella Russia di inizio Novecento, dove un gigantesco felino terrorizza i contadini della Siberia uccidendo decine di uomini e decimando il bestiame. A San Pietroburgo la tigre fa così paura che molti temono possa arrivare a fare strage anche in città, finché lo zar interviene promettendo una favolosa ricompensa: il peso della tigre in monete d’oro a chi riuscirà a mettere a morte lo spaventoso animale.
I protagonisti della storia sono la belva e Ivan, il ragazzo di San Pietroburgo che parte per la Siberia nella speranza di intascare la taglia e cambiare vita. La tigre è la prima storia compiuta di Joël Dicker, la rivelazione di un talento narrativo che venderà poi sei milioni di copie in tutto il mondo. Scritto a 19 anni (ora Dicker ne ha 34), il racconto viene pubblicato adesso in Italia con le splendide illustrazioni dello spagnolo David de las Heras.
Joël Dicker, quanto è affezionato alla «tigre»?
«Molto, perché rappresenta diversi punti di partenza. L’ho scritto in un periodo particolare. Ho cominciato ad avere voglia di scrivere romanzi all’età di 15 anni e ho passato qualche anno e rendermi conto di quanto fosse difficile. Provavo, cominciavo, avevo un’idea ma non andavo lontano, e mi facevo domande rimaste a lungo senza risposta. La più importante: come fanno i romanzieri che leggo a scrivere 300 o 400 pagine, quando io dopo sei cartelle mi blocco e non so più come andare avanti?».
Quali romanzieri leggeva, all’epoca?
«A 15 anni ho cominciato a leggere Ken Follett, mi piacevano i romanzi di spionaggio, i thriller. Follett mi ha dato l’ambizione di scrivere romanzi che appassionano il lettore, che lo costringono a girare la pagina. Poi c’è stato il periodo in cui ho scoperto la letteratura russa, intanto incuriosito dalle mie origini (Joël è pronipote di Jacques Dicker, ebreo russo emigrato in Svizzera e naturalizzato nel 1915, ndr), poi perché ero affascinato dalla forza di quelle opere, dall’idea che il romanzo esiste davvero. La mia formazione da ragazzino si è fatta sulla letteratura francese, Follett e i thriller, poi i russi».
Come è riuscito a vincere il blocco?
«La letteratura russa mi ha dato la voglia di provare a scrivere ancora, senza arrendermi. E nel 2005 c’è stata l’occasione di un premio, in Svizzera».
Quale premio?
«Il premio internazionale dei giovani autori di Losanna, riservato ai ragazzi tra i 15 e i 20 anni. Ho pensato di scrivere una storia breve, un primo passo ma importante, su un tema russo».
Come è stato accolto «La tigre?»
«Bene, il testo è stato notato e questo mi ha incoraggiato. Dopo sono riuscito a scrivere qualcosa di maggiore respiro, il mio primo romanzo che è Gli ultimi giorni dei nostri padri, non lunghissimo ma comunque un romanzo, che mi ha permesso di conoscere il mio editore Bernard de Fallois, scomparso l’anno scorso».
Perché questa ostinazione nella scrittura, nonostante difficoltà durate anni?
«Ho sempre desiderato scrivere, quando ero bambino già scrivevo piccole storie. Credo che la voglia di scrivere si impadronisca delle persone che amano molto leggere. Amo la letteratura perché mi piace che mi si raccontino delle storie. Prima ancora di saper leggere adoravo quando i miei genitori mi leggevano o raccontavano una storia. Sono sempre stato avido di racconti, e mi è venuta voglia di mettermi anche nella posizione di quello che non solo li riceve, ma li offre. E il modo più facile per me da bambino era inventare una storia. Puoi scriverla su una pagina e poi darla a chi ti pare. Mi piaceva l’idea di condividere quel che immaginavo».
La sua famiglia ha una casa a Stunington, nel Maine, in quel New England dove sono ambientati i suoi bestseller. «La tigre» è una storia russa anche in omaggio all’antenato Jacques Dicker. Il punto di partenza è sempre personale?
«Certamente, anche se rivendico il mio essere uno scrittore di fiction. Racconto storie inventate ma il materiale iniziale è qualcosa che mi appartiene. È così anche in qualità di lettore, comunque. Da lettore, se mi raccontano una storia che si svolge su una spiaggia, immagino le spiagge delle mie vacanze sui bordi dell’Atlantico in America del Nord. Un’altra persona magari pensa al mare della costiera amalfitana o della Bretagna. Peschiamo nel nostro immaginario, in quello che abbiamo vissuto, ma è lo stesso riflesso sia per lo scrittore che per il lettore».
Il finale de «La tigre» è sorprendente. Aveva già il gusto del colpo di teatro, del personaggio che rivela un volto insospettato, come nei bestseller successivi?
«Sì, credo sia normale viste le mie letture a quell’età. Anche Il conte di Montecristo di Dumas ha una grande complessità di passaggi, qualcosa che dà profondità. Ho sempre cercato di farlo sin da giovane, mi sforzavo di creare personaggi senza manicheismi, figure complesse mosse da ragioni diverse che possono coesistere».
Perché pubblicare «La tigre» adesso?
«Me lo ha proposto prima di morire Bernard de Fallois. Il mio editore spagnolo aveva letto il racconto e sollecitato l’illustratore. Quando Bernard ha visto il progetto finale con i disegni, così riusciti, mi ha chiesto se fossi d’accordo nel farlo uscire e ho accettato senza dubbi. Poi Bernard è mancato (il 2 gennaio 2018, a 91 anni, ndr) e quando il nuovo responsabile delle edizioni de Fallois mi ha ricordato quel progetto sono stato contento di riprenderlo, mi è piaciuto fare un’ultima cosa che avevo cominciato con Bernard».
Ha riscritto il testo?
«Quando l’ho riletto mi è parso evidente il lato giovane e immaturo ma non l’ho ritoccato, diciamo che ho solo tolto qualche giro di frase che non tornava, che impediva una lettura corretta. Per il resto l’ho lasciato così com’era. Sono io a quell’età, è un testo che riflette il ragazzo che ero ma non tradisce il lettore, sono sempre io. È come una foto di me dalla quale ho tolto un po’ di polvere, ma senza stravolgermi con Photoshop».
Nella «rentrée letteraria» francese di settembre anche quest’anno c’è molta non fiction: lo scandalo Yann Moix che in «Orléans», pur definito romanzo, parla dei maltrattamenti subiti nell’infanzia e ha provocato le smentite del padre e poi le accuse del fratello; poi «L’Ennemi» di Georges Buisson, un altro regolamento di conti con il padre, stavolta il Patrick Buisson estremista di destra e consigliere di Nicolas Sarkozy all’Eliseo. Che cosa pensa del successo degli autori che sembrano avere rinunciato all’idea della letteratura come fiction?
«Comincio premettendo che ho molto rispetto per gli scrittori e il loro lavoro. Ma in linea generale, noto in effetti che soprattutto in Francia vengono pubblicate sempre più opere che non sono saggi ma neanche fiction. Scrivere testi che non sono fiction e presentarli come romanzi fa un danno grave al romanzo. Il romanzo è un’opera di creazione originale, che può essere eventualmente basata su fatti reali ma deve diventare poi l’invenzione di uno scrittore, in modo che il lettore possa coltivare il suo immaginario. La letteratura permette di leggere un romanzo sull’autobus, in camera o all’ospedale e al tempo stesso essere altrove. È questo il suo ruolo».
Ma è anche quel che vuole ancora il pubblico?
«Io penso di sì, e la prova secondo me è l’eccitazione planetaria per le serie tv. Perché tutti amano le serie tv? Perché hanno voglia di essere proiettati in un altro mondo, e a lungo. Gli autori di feuilleton lo hanno sempre fatto, i romanzi lo fanno e le serie tv sono il prolungamento di questa tradizione. I produttori cercano di acquistare romanzi perché sono una fonte perfetta di serie tv. Prima, quando i romanzi venivano adattati al format del film, il processo era complicato, è difficile comprimere tutto in un film di un’ora e mezza».
Le serie facilitano l’opera di adattamento?
«Decisamente, il romanzo è lo strumento ideale per i produttori perché c’è dentro tutto il materiale necessario per fare una serie. Se abbandoniamo i veri romanzi e la fiction, spingiamo le persone verso le serie tv. Non c’è niente di male in questo, per carità, ma la grande battaglia per la letteratura oggi consisterebbe nel ricordare alle persone che se amano la serie tv ameranno ancora di più leggere, perché la lettura di un romanzo è un’esperienza ancora più forte del guardare una serie tv. Quando leggi ti immedesimi di più nei personaggi, ci metti la tua esperienza e la tua immaginazione. Quando guardi una serie, per quanto ottima, sei solo spettatore. È sempre un’esperienza meno coinvolgente».
Facciamo un esempio: «La verità sul caso Harry Quebert», il suo primo grande successo mondiale, è diventato una serie tv girata da Jean-Jacques Annaud. Qual è il suo giudizio?
«Mi è piaciuta l’esperienza umana con Annaud, è stata una bella avventura, ho apprezzato il prodotto finale, la serie rende bene l’atmosfera del romanzo, ma quando i lettori mi dicono “spero che rivivrò nella serie tv le emozioni del romanzo” rispondo no, è impossibile, sono due cose diverse, è come dire: oggi mangerò pesce e spero di ritrovare il gusto della carne. La serie, anche quella fatta meglio, sarà sempre inferiore al romanzo. Oggi più che mai le persone sono pronte a leggere, ed è molto importante che autori ed editori se ne rendano conto. Per rimettere le persone sulla via delle librerie dovremmo offrire loro romanzi che sono veri romanzi. Non testi di auto-fiction che sono una specie di raccolta di pezzi di vita dello scrittore, oltretutto spesso poco interessanti, almeno secondo me».
Sta scrivendo il prossimo romanzo?
«Sì e sono a buon punto, diciamo verso la fine. Ma siccome, come sempre, non seguo una scaletta, non so, tutto può cambiare ancora. Di sicuro non sarà auto-fiction» (ride).
Ci anticipa qualcosa almeno del tema principale?
«Sono molto superstizioso, non mi piace parlare di un nuovo romanzo prima che sia finito. Ma posso dire che è totalmente differente da quel che i miei lettori hanno potuto leggere finora».
Quindi non ci sarà più la costa Est degli Stati Uniti?
«Non dico né sì né no. Ma è possibile che non ci sia».
Quando sarà pronto?
«Non so, vedrò il mio editore che cosa ne pensa. Quel che mi piaceva di Bernard era che non ho mai avuto un contratto, mi diceva sempre: “Scrivi il tuo romanzo, se è bello lo pubblico, altrimenti no”. Molto semplice. Mi piace, pur avendo venduto ormai un po’ di copie, avere davanti qualcuno in grado di dirmi questo va bene, questo no. Sto concludendo con calma, poi vedremo se l’editore lo accetterà così com’è».
Sarà il primo romanzo senza Bernard de Fallois, il suo mentore.
«Sì, gli devo tutto, è lui che ha creduto in me, ha voluto pubblicarmi e farmi da guida. Per questo il prossimo libro sarà molto importante. Comincia una nuova tappa, senza Bernard».