Corriere della Sera, 15 settembre 2019
Intervista a Peppino Di Capri
Quest’estate, Peppino di Capri ha compiuto 80 anni e ha perso la moglie Giuliana, con la quale ha passato più di metà della vita. Il funerale, confessa, l’ha visto da lontano. «Dalla curva che porta a casa». Silenzio. Primo momento di commozione. «Già quando morì mia madre non andai. Volevo ricordarla viva, bellissima quando cantava a squarciagola e puliva la casa. Erano canzoni napoletane, una più bella d’altra. Mi tornarono in mente quando dal ’58 incisi i primi dischi e le spumeggiai, le rifeci rock».».
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«I tradizionalisti erano scandalizzati, ma io tenevo insieme la mia anima rock e quella sentimentale. Poi, ahimè, il disco più venduto è rimasto Let’s twist again».
Lanciò lei il twist, perché «ahimè»?
«Avrei preferito una canzone italiana a una in un inglese un po’ inventato. Componevamo mettendo dei ta-ta-tà a caso, poi inserivamo le parole. E, ta-ta-tà, nacque Saint Tropez Twist. Io a Saint Tropez non c’ero mai stato. Andai anni dopo con Gino Paoli. Era inverno. Arriviamo. Tutto chiuso, tutto triste. E noi: ma le giacche in lamé della canzone dove sono?».
Che ha visto dalla curva che porta a casa il giorno del funerale?
«Ti torna in mente tutto, scorri una vita insieme. Dopo, la musica mi ha aiutato. Mi ha tenuto impegnato».
Ha fatto concerti, si è esibito a Miss Italia, ha scritto un album, Mister Peppino di Capri, che uscirà a ottobre. Ma com’è stata davvero quest’estate?
«Non sei mai preparato, anche se la malattia c’era da un anno. Alti e bassi di speranza. Ti dicono: a Milano c’è un medico, in America ce n’è uno più bravo. Ti dicono “è operabile” e poi non è più operabile. Poi: non c’è niente da fare. Ma a Roma dicono: non è vero. Ed è un’altra trafila, un altro barlume. Invece, “no, portatela a casa”. Passano due mesi, tre. E solo quando non c’è più, senti la mancanza profonda. Il punto di riferimento era lei. La soddisfazione di far sentire un brano nuovo... Ora, a chi lo fai sentire?».
Aveva annunciato il ritiro nel 2019.
«È una cavolata che s’è inventato qualcuno, non ci penso affatto. A inizio anno, ho fatto un tour in Brasile e conoscevano tutte le canzoni. La voce è rimasta quella dei vent’anni. Sto sempre coi giovani, amici dei tre figli. Ho perso anche 11 chili, togliendo i dolci e senza fare sport, mi bastano le passeggiate nella mia Capri».
Qual è la sua passeggiata preferita?
«Il sentiero che passa per l’Arco Naturale e arriva a un ristorantino buono. Lo facevo da bambino per andare a studiare piano dalla mia maestra tedesca».
Chi era quel bimbo nato nel ’39?
«La guerra inizia con me che nasco e finisce con me che suono il piano per i soldati americani alla fine del ‘44. Eravamo poveri, non avevo giocattoli, solo un piano scordato. All’inizio, ho imparato a orecchio, da solo. Mio zio era chef dell’albergo che ospitava gli alleati e mi portava a suonare per loro. Ho la foto con me che suono per il generale Mark Clark».
Il talento arriva dal papà musicista?
«Era diplomato in violoncello, ha suonato sax e clarino nei locali di Capri. Era stato chiamato sotto le armi che avevo sei mesi. Quando tornò, mi nascondevo in tutte le stanze. Ero timidissimo. Poi, mi misi al piano a suonare. Conoscerlo e insieme fargli vedere cosa avevo imparato fu un’emozione fortissima».
Quando è passata la timidezza?
«Resto uno che non si propone. Infatti non mi hanno mai dato uno special tv. E neppure un premio alla carriera a Sanremo: ne ho fatti 15, vinti due».
Ha venduto oltre 35 milioni di dischi, scritto 519 brani. Li ricorda tutti?
«No, per carità. A volte, ne riscopro uno su Youtube».
I suoi preferiti?
«Gli ultimi, come I miei capelli bianchi: sono per la novità, la ricerca. Ma m’identifico nel sognatore».
Lo è ancora?
«Sogno ancora che resti la melodia, l’emozione, una musica oltre il plug-in che aggiusta le voci e crea successo facile. Io a 13 anni cantavo la notte nei night, poi andavo a scuola, studiavo piano, mi si raccoglieva col cucchiaino. Non devo dire grazie a nessuno».
Momenti bui ne ha avuti?
«Fra il ’67 e il ’70. Tutti facevano i capelloni che imitavano i Beatles e io non volevo essere una caricatura».
Nel ‘64, lei aprì i loro concerti italiani.
«Perché avevo tante canzoni in classifica. Roberta, il twist... Loro erano così blindati che riuscii a fare una foto solo l’ultimo giorno. Dopo, la mia casa discografica era nella fase “avanti un altro”. Mi rifiutarono pure Scende la pioggia e Io per lei, che divennero successi di Morandi e dei Camaleonti. Ho capito che significa non essere filato, non andare in tv, gli amici che spariscono e i veri valori».
Come ne è uscito?
«Una sera, rannicchiato a casa, vidi in tv Georges Moustaki che cantava Lo straniero. Rimasi paralizzato. Mi dissi: ma io che ci faccio qua? Fu una spinta bellissima. Mi scusi, mi sto commuovendo».
Che cosa ancora la commuove?
«Quel momento. La forza che ebbi di andare a Roma e dire: perché io no? Mi risposero: siete troppi e tu costi troppo. E io: quanto mi offrite? E ripartii da capo».
Quei tre anni coincidono con la crisi del matrimonio con Roberta Stoppa.
«Ci eravamo sposati a 20 anni, era una modella, la vidi ballare con William Holden a Ischia e le dedicai una canzone. Il giorno dopo la trovo al locale con un leoncino in braccio. Se l’era fatto prestare per far colpo. Col senno di poi, è stato più un amore da show che di sostanza, l’opposto che con Giuliana, di buona famiglia, biologa. Il padre di me diceva: nun se po’ guarda’. Perché ero cantante e non c’era il divorzio. Successe pure che ebbi una rentrée di una notte con Roberta e nacque il mio primo figlio. Fu un trauma, ma Giuliana era molto avanti di mentalità e capì. Mi fa dire un’ultima cosa?».
Prego.
«Prima mi sono commosso, ma commuoversi fa sentire liberi. Infatti ora sto meglio».