Corriere della Sera, 15 settembre 2019
David Cameron l’imperdonabile
Dopo aver appiccato il fuoco alla casa, si è rintanato per tre anni a scrivere nella sua capanna nel giardino: e quando ne è riemerso, tutto quello che è stato capace di dire è «mi dispiace».
Davida Cameron è davvero l’imperdonabile: il primo ministro britannico che decise il referendum sulla Brexit, oggi, di fronte a un Paese in scacco e sempre più lacerato, si dimostra incapace della benché minima autocritica; non azzarda neppure una vaga assunzione di responsabilità; e non è capace di alcuna analisi delle ragioni che hanno portato al divorzio dalla Ue.
Il suo volume di memorie, che arriva in libreria giovedì e che è stato anticipato ieri dal Times - accompagnato da una lunga intervista – è disarmante nella sua banalità. L’uomo che è stato accusato di essersela data a gambe dopo il disastro – si dimise all’indomani del voto – sembra non essere ancora in grado di dare un senso a ciò che è accaduto: e al suo ruolo in tutto questo.
Il massimo che riesce a fare è riconoscere che «ci sono quelli che non mi perdoneranno mai per aver indetto il referendum, o per aver fallito nell’ottenere il risultato che cercavo – la permanenza della Gran Bretagna in una Ue riformata. Mi dispiace profondamente per il risultato e ammetto che il mio approccio è fallito. Le decisioni che ho preso hanno contribuito a quel fallimento. Ho fallito».
Ma allo stesso tempo continua a rivendicare la giustezza della decisione di andare alle urne: «Sulla questione centrale, se fosse giusto rinegoziare la relazione britannica con la Ue e dare alla gente la possibilità di dire la sua, il mio punto di vista rimane che questo era l’approccio giusto». E dunque il referendum era «non solo giusto e non solo dovuto da tempo, ma necessario e, ritengo, in ultima analisi inevitabile».
E tuttavia è chiaro che qualcosa andò storto. Perché nell’intervista Cameron ammette che il risultato lo aveva lasciato «enormemente depresso». Ala domanda se riesca a dormire la notte, risponde: «Me ne preoccupo molto. Ci penso ogni giorno... alle cose che avrebbero potuto essere fatte diversamente, e mi preoccupo per cosa accadrà».
Ma questo è tutto. E incolpa lo «psicodramma dei conservatori» che ha impedito al suo messaggio di raggiungere il pubblico. La sua tesi è che la campagna per restare in Europa si era basata solo su argomenti razionali ed economici, mentre i fautori della Brexit avevano fatto appello all’emotività. Che è anche vero: ma in questo modo Cameron trascura le ragioni profonde che avevano portato al voto contro la Ue. Soprattutto, l’ex premier sembra non essersi ancora riavuto dalla sorpresa, quando confessa che «il gene latente anti-europeo tra i conservatori era molto più forte di quanto pensassi» e che «non aveva previsto» che tanti suoi compagni di partito volessero uscire dalla Ue.
Cameron continua a pensare che la singola questione più importante dietro il voto pro-Brexit sia stata l’immigrazione: e così trascura le cause di lunga durata, dagli anni di austerità imposti dal suo governo alla deindustrializzazione forzata di intere aree del Paese, con tutte le tensioni sociali che ne erano seguite.
Soprattutto, pare ancora non rendersi conto che il voto per la Brexit era stata una rivolta contro quell’establishment rappresentato proprio da personaggi come lui, il dandy uscito da Eton e Oxford. E duque alla fine sembra aggrapparsi alla speranza di un secondo referendum che raddrizzi il risultato.
Cameron era arrivato al potere come il grande modernizzatore: ma si era rivelato fatalmente in ritardo sulla storia. Le sue memorie non colmano il divario.