Come vive il tempo che passa?
«Come un’ombra, una distanza, un’occasione mancata, un dolore, una scomparsa. È il vivere nella provvisorietà. So di essere una persona precaria».
La turba questa consapevolezza?
«No, credo di essere diventato uno specialista di precarietà».
De Signoribus è un nome imponente.
«È un cognome fiorito nella zona di San Benedetto del Tronto. Una specie di stemma austero e aristocratico. Ma ad esser sincero ho conosciuto solo una vita modesta».
Suo padre chi era?
«Un artigiano, dopo le elementari andò a bottega e imparò il mestiere di barbiere. La sua storia di famiglia è uscita solo per cenni. Avrei amato conoscerla nei dettagli. Ho un fratello più giovane, una madre ancora in vita, una moglie e una figlia».
Ha sempre vissuto a Cupra Marittima?
«Tranne pochi anni trascorsi nel Veneto, quando ho insegnato a San Donà di Piave, sono stato sempre qui».
Per fedeltà, per inerzia, perché?
«Da piccolo consideravo il paese un luogo sacro. Un piccolo mondo di eguali, di persone con cui si potevano scambiare le cose della vita».
Sacro perché?
«Era come identificarsi con la purezza del paesaggio. Da bambino avvertivo nelle cose e nel luogo dove vivevo una forma di santità. Passavo dai margini delle strade per non calpestarle. Poi, crescendo, tutto questo si è attenuato».
Gli studi, l’università a Urbino, l’insegnamento. In fondo tutto abbastanza normale.
«Senza una luce che illuminasse questa crescita».
Forse nella scrittura.
«Forse».
Che cosa la spingeva a scrivere, soprattutto poesie?
«Sapere di aver molto tempo davanti a me e poi l’idea della fatica che avrebbe comportato fare poesia».
Fatica?
«Scrivere di poesia non è solo provare un sentimento: è rigore, necessità, metrica applicata al
cuore. Ma anche incoraggiamento da parte di chi vide nel mio primo vagito una voce futura».
C’è una persona in particolare?
«Giovanni Giudici che venne ad Ascoli per una conferenza e stemmo insieme per qualche ora. Gli parlai di me, gli lessi qualcosa di mio e alla fine con generosità disse che avrebbe volentieri scritto sul mio lavoro poetico. Mi convinse a continuare. Ma non è stato semplice».
Perché?
«Ho sofferto di lunghi periodi di malinconia e anche della voglia di scomparire. Ma sono ancora qui. Se non si affoga, prima o poi, si torna a galla».
Come un sopravvissuto?
«Come lo scampato che desidera una vita più normale».
La desidera perché?
«Ho scartato le ambizioni e le rivalità, e per questo mi sembrava legittimo pensare che la vita sarebbe stata più semplice. Mi sono sbagliato».
Però ha continuato a scrivere.
«Scrivo senza pensarci, senza vedermi. Per caso. Non mi è mai accaduto di dare intenzionalità alle cose. Ho scritto solo quando la necessità ha avuto la meglio sul bisogno di combatterla. Scrivere non è mai per me qualcosa di definitivo. Penso sempre a come migliorare un verso. E non mi piace il gesto di prendere il foglio, non mi piace vedermi o esser visto in quella condizione».
Si ribella all’impulso poetico?
«Voglio sottrarmi allo sciocco slancio dell’ispirazione».
Come definisce l’azione poetica?
«Per me è sinonimo di vigilia e quindi è sempre un’attesa. Anche perché non sono mai convinto di ciò che scrivo».
Che cosa mette in dubbio?
«La possibilità stessa che mi avvicini all’autentico. Penso alla poesia come alla sobria preghiera della sera. Come la remissione del peccato di mediocrità. La sciatteria va bene nella vita. Nella poesia occorre avere rispetto della forma e dell’intelligenza di chi legge. Non bisogna mai rassegnarsi alla facilità».
C’è nella poesia un’idea di verità?
«Non potrebbe non esserci. Se fosse solo bizzarria non sarebbe nulla più della mia furbizia».
Dove è avvenuto il suo tirocinio poetico?
«Su alcune riviste, dove ho collaborato assiduamente. Poi nel 1989 uscì il mio primo vero libro, Case perdute. Mi sembrò che con quella pubblicazione venisse meno la mia innocenza. Da allora tirai fuori il mio muso dall’acqua. Per anni ho pubblicato per Garzanti e poi da loro più niente. Il silenzio. Ho continuato grazie ad altri amici a pubblicare e a essere tradotto».
Alcuni furono autorevoli, come Carlo Bo.
«Di lui seguii ad Urbino dei corsi di letteratura francese. Non ebbi mai il coraggio di avvicinarlo. Seppi soltanto molto dopo, quando ormai era alla fine della vita che mi aveva letto e apprezzato. Altri incontri furono con Caproni, Luzi e Volponi. Ma anche Bonnefoy e Raboni. E poi le lettere che ci scambiammo con Tabucchi. In tutto dieci, tra il gennaio e il marzo del 2012. Fu l’alba di un’amicizia che non fece in tempo a diventare giorno. Antonio morì il 25 di marzo».
Cosa dicevano quelle lettere?
«Furono la scoperta per entrambi di qualcosa che non potevamo sapere di avere: l’amicizia dell’uno verso l’altro. Ammiravo lo scrittore e il grande traduttore di Pessoa. Mi disse che dopo la rilettura di certi miei versi si era messo a leggere e a tradurre una poesia di Pessoa che pone una strana domanda alla storia: perché una civiltà può nascere e fiorire e poi appassire senza rimedio? Una domanda che Antonio definì metafisica e che Pessoa si fece nel 1935, l’anno della sua morte. Era evidente il riferimento a cosa era stato l’impero portoghese e a come si era ridotto».
L’allusione forse era alla nostra epoca.
«Forse al modo in cui l’Occidente decade. Cosa siamo stati? Cosa abbiamo perso e ci addolora? "Sul nostro rimpianto soffia un vento gelido, e dal rimpianto alla desolazione il passo è breve", erano i versi iniziali di Pessoa, di quella poesia, che Tabucchi mi indicò, come sigillo a una disperazione».
La poesia ha molta attinenza con il dolore?
«È una componente, ma se ne può scrivere solo vivendolo. Non potrei mai scrivere del dolore altrui. Mandel’stam e Celan hanno raccontato in modo altissimo la loro estrema desolazione. Ciò che hanno vissuto sulla loro carne».
Mandel’stam fu una vittima dello stalinismo.
«Apparteneva a quella formidabile schiera di poeti russi orrendamente sfregiati dalla violenza totalitaria. La sua vita fu braccata, umiliata, bandita ai margini di campi di concentramento "Mi sono perso in cielo: che fare?" scrisse in un verso. Le sue poesie, negli anni della persecuzione, furono incise su pezzetti di carta, su scatole di fiammiferi e quanto di altro avesse un minimo spazio libero, erano poi imparate a memoria dalla moglie e successivamente trascritte. E così, quasi omericamente, arrivarono fino a noi».
L’altro nome che faceva era quello di Paul Celan.
«Anche di lui ricordo un verso che mi arrivò come un pugno allo stomaco: "La morte è un fiore che solo una volta fiorisce", non perché ne condividessi il pensiero, ma per la potenza dell’immagine. Lui fu l’unico, della sua famiglia, sopravvissuto allo sterminio nazista. Cercò di vivere la propria drammatica autenticità reinventando la lingua poetica, quasi fosse una sorta di balbettio perché non tutto sarebbe stato per lui sintatticamente tracciabile».
Per quanto certi versi ci feriscono, alla fine ci consolano. È questo il paradosso della poesia?
«È come ridare la vista a un cieco. Che poi la perderà di nuovo. Leggere Celan mi consola perché in onore della sua lingua vado di soglia in soglia. Lui stesso andò davvero di soglia in soglia, come forse di buio in buio. Fu a Vienna, Parigi, Gerusalemme. Fu ad Assisi. Una poesia lo ricorda: "Notte umbra con la pietra che portasti fin qui". Uscì, entrò, e rientrò infine in se stesso, nell’acqua immaterna».
Allude al suicidio nella Senna?
«Alla necessità di scomparire perché non può più esserci patria, se non l’immagine riflessa in ciò che è stato perduto per sempre. E Paul Celan amò la poesia di Osip Mandel’stam. C’è un filo invisibile che porta certe anime a riconoscersi, fuori anche del loro tempo: un filo che salva chi lo vede».
Le piace o accetta di essere definito poeta?
«Importa a qualcuno? Non credo che sia rilevante. Probabilmente avrei dovuto fare un altro mestiere. Ma sono esperto in niente. Mio padre era molto preciso nel suo lavoro di barbiere. Per ottenere una buona sfumatura, diceva che occorreva lavorare con la punta delle forbici. E questo richiedeva tempo. Ed era così, sia per la testa del ricco come per quella del povero».
A cosa vuole alludere?
«Volevo solo dire che lo scrupolo di mio padre per la precisione e il suo rispetto per chiunque, sono forse stati per me un inconsapevole esempio di bottega, di artigianato nel senso della cura massima della parola nella scrittura poetica».
Ma se avesse potuto avrebbe davvero fatto un altro mestiere?
«Se avessi potuto avrei fatto il giardiniere. Mi piace che ci sia un tempo in cui maturano i frutti o fioriscono le piante. Anche la poesia è così. Ha dentro di sé qualcosa di stagionale. Scegliere il tempo giusto, o farsi scegliere, è il vero antidoto alla sciatteria. Quella che esibiscono tutti coloro che nello spazio di un mattino si scoprono poeti, musicisti, pittori. Il percorso da intraprendere è in realtà lungo e il risultato è incerto».
Alla fine c’è sempre il rischio di non essere compresi.
«Si potrebbe anche mettere così: sono poeta perché scrivo versi o scrivo versi perché qualcuno li riconosce come poesia? In mezzo c’è il fraintendimento, la frustrazione, perfino la rabbia di non essere capiti. Ma non c’è nessuna legge che obblighi ad accettare un poeta o un verso. Magari oggi uno mi dice che ho scritto qualcosa di bello e un altro è pronto a denigrare il mio lavoro. E avrà le sue ragioni, anche se posso dire: ma come fa a non accorgersi del mio dolore?».
C’è una risposta?
«Non c’è né ci può essere. La verità della poesia non è il frutto di un esperimento che si può ripetere. La verità della poesia è sola. Cresce nel deserto ed è raro che possa essere ascoltata. È la parola estrema e indifesa che cancella ogni certezza. È la semina per un raccolto difficile».