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 2019  settembre 14 Sabato calendario

Intervista a Lana Del Rey

Nessuno avrebbe mai previsto che Lana Del Rey potesse arrivare a tanto. La cantautrice Elizabeth Grant (questo il suo vero nome) sarebbe potuta restare una semplice nota a piè di pagina nella storia della musica, dopo il precario debutto alla trasmissione Saturday Night Live all’inizio del 2012. E invece è sbocciata, diventando una degli artisti e interpreti mondiali di maggior successo di questo decennio. Norman Fucking Rockwell!, il suo quinto album per una major, è uscito da poco: è pieno di parole forti e dissacranti (non solo nel titolo), e indaga ancora una volta le versioni iconografiche della mascolinità e della femminilità, facendo a pezzi la prima e rafforzando la seconda, a cominciare dal brano di apertura, Goddamn, man-child (Maledetto uomo-bambino). La sua musica aggressivamente lenta è un tributo al folk e al rock di Laurel Canyon.

Offrendoci un chiaro spaccato di dove abbia la testa di questi tempi, nelle sue canzoni la 34enne Del Rey inserisce riferimenti anche a John Lennon, Led Zeppelin, i Beach Boys, David Bowie e Crosby, Stills & Nash, pur mantenendo echi di Fiona Apple e Cat Power.
Non c’è qualcosa che intimidisce un po’ nel far uscire un album prodotto da Jack Antonoff contemporaneamente a Taylor Swift?
«Beh, di sicuro mi fa riflettere un bel po’ su quello che [parolaccia] sto facendo nella mia vita. ( Ride) ».
In che senso?
«Perlopiù trascorro il tempo al mare! Quindi, sì, in un certo senso ho pensato che… beh, sarebbe stato meglio rimboccarmi le maniche e combinare qualcosa. Insomma… (fa una lunga pausa seguita da un sospiro). Il mio programma consiste nel non avere programmi per la maggior parte del tempo, e questo sistema mi va molto a genio.
Talvolta, però, sono costretta a reagire, a darmi una mossa, e così mi accorgo che la musica e la cultura stanno cambiando. Non ho proprio pensato all’album di Taylor, poi quando è uscito ho esclamato "Oh, wow!", ma non mi sono resa conto che uscissero a una sola settimana di distanza l’uno dall’altro».
Che pensa del pop mainstream di oggi? Si tiene aggiornata?
«Sì, mi piace moltissimo. Ma non sto dietro alle classifiche. Vuoi sapere se tengo la radio accesa? Ehhh, più che altro uso Instagram. Se qualcuno posta un brano o una canzone che mi incuriosisce o mi piace, vado su YouTube e l’ascolto.
Adoro Billie Eilish, e mi sembra di aver sempre aspettato che emergesse la cultura musicale pop di questi tempi. Sono molto perspicace, riesco a capire se nel cuore di una cantante pop, per esempio, c’è generosità d’animo o un fuoco brioso. Nel caso di Billie, posso dirti che è eccezionale. Per capirlo mi è bastato ascoltare un verso di una sua canzone e… l’ho capita subito».
Nel brano "The Greatest" dice che le manca il rock’n’roll. Pensa che il rock sia morto e sepolto?
«Più che altro la mia è una sensazione. Ripenso a quando avevo 19, 20, 21 anni e portavo i miei primi ragazzi in questo (parolaccia) appartamento… e ascoltavamo i Kings of Leon, o i White Stripes e gli Strokes. Ricordo che cercavamo di intrufolarci in un bar nascosto dell’East Side, ma nessuno ci faceva entrare. Era tutto così divertente!
Forse, avrei fatto meglio a dire che mi manca l’indie rock».
Quando canta "Kanye West is blond and gone" si percepisce che prova quella medesima nostalgia.
Si è esibita al suo matrimonio, poi lo ha criticato fortemente per il suo sostegno al presidente Trump su Twitter. Ci sono state reazioni?
«No. Per fortuna no. Il fatto è questo: io non voglio sollecitare risposte. Non ci si sente mai meglio, dopo aver scritto una cosa del genere. Ma Kanye rappresenta molto per noi tutti. E, a proposito, sono grata di vivere in un Paese nel quale ognuno è libero di avere la sua opinione politica. Non è che io sia più liberal che repubblicana… diciamo che mi colloco al centro. A farmi dire quello che ho detto sono stati l’atmosfera generale e le sensazioni che hanno accolto le sue parole quando ha detto che "Trump è il più grande!". Il più grande? Ma ne siamo proprio sicuri? Mi ha ferito molto».
Ha inciso e pubblicato anche "Looking for America", una canzone in reazione alla recente ondata di sparatorie di massa. Che cosa l’ha spinto a farlo, di preciso?
«La sfilza di stragi a ridosso l’una dall’altra, a distanza di sole 24 ore.
Mi sento sempre male quando accade qualcosa di violento. Ma ero anche estremamente arrabbiata.
Ogni tanto, come nel caso dell’incendio in Amazzonia, la gente all’improvviso si sveglia e si meraviglia, poi pensa "wow, questa non è soltanto una fase passeggera". In tutto questo c’è qualcosa di profondamente sbagliato. A me piace restare in disparte, ma quando si assiste a una sparatoria di massa dietro l’altra… mi sento di affermare che è arrivato il momento di dire basta una volta per tutte».
Pensa che manchi una musica di protesta?
«Sì, adesso la penso proprio così.
Penso che ci sia stato un lungo periodo in cui non si era davvero sicuri di quello che stava accadendo. Quando Obama è stato eletto io ero tra la folla a Union Square. Sotto la sua amministrazione, sembrava che si fosse realizzato un sogno e che potessimo dedicarci all’arte, che fossimo entrati in un periodo di tregua, che non dovessimo più parlare di cose del genere. Ma, naturalmente, accaddero molti fatti. Oggi la popolazione sta collegando i puntini, si sta facendo un quadro più chiaro della situazione e inizia a chiedersi: "È mai possibile che questa presidenza stia facendo affermare il concetto che essere sempre più violenti sia ok?". Il fatto è che sempre più persone rispondono in maniera affermativa a questa domanda. In pratica, è come se uno che dice "prendile per la figa!"
(Trump, ndt) facesse sentire tutti un po’ più autorizzati a portare un fucile automatico a scuola. Se mai c’è stato un periodo giusto per fare musica di protesta? Sì, è questo che stiamo vivendo».
© 2019 The New York Times Traduzione di Anna Bissanti