Ci sono scrittori che prendono curiose cantonate sulla propria identità professionale: Cervantes era convinto che la sua fama artistica sarebbe venuta dalle poesie; Henry James si immaginava che sarebbe diventato un famoso drammaturgo; Lewis Carroll considerava i libri di Alice delle bagatelle rispetto ai volumi di logica e matematica che scriveva con il suo vero nome, Charles Lutwidge Dodgson; Julio Cortázar, che si considerava argentino nonostante fosse nato in Belgio e avesse trascorso la maggior parte della vita adulta a Parigi, si vedeva come uno scrittore politico, uno degli ultimi esponenti della genìa che Sartre aveva etichettato come écrivains engagés. Era consapevole della misteriosa qualità dei suoi racconti fantastici, e sapeva che scrivendo il romanzo Il gioco del mondo in collaborazione con il lettore aveva creato un’opera di fantasia degna della biblioteca di Pierre Menard. Eppure era convinto che il valore dei suoi scritti derivasse dalle sue idee politiche, focalizzate sulla denuncia dei regimi totalitari di destra. Soprattutto nei suoi ultimi anni, era disorientato che i lettori continuassero a preferire le sue favole e i suoi racconti onirici e dell’assurdo, mentre le sue opere "politiche" rimanevano sugli scaffali a prender polvere.
Cominciai a leggere per la prima volta Cortázar da adolescente, all’inizio degli anni ’ 60, in quella che per me era l’Era della Scoperta: scoperta del Socialismo, della Metafisica, dell’Amicizia, del Surrealismo, di Ezra Pound, dei Film Horror, dei Beatles e naturalmente del Sesso. Uno dei miei amici aveva trovato un volumetto chiamato Bestiario. Era quadrato, delle dimensioni di un taschino di camicia, e la copertina mostrava una fotografia in bianco e nero di una donna o di un gatto. Facevamo a turno a leggere i racconti: una casa abitata da una coppia di anziani, fratello e sorella, viene gradualmente occupata da invasori senza nome; due giovani, su un autobus, scoprono una cospirazione degli altri passeggeri, che portano tutti mazzi di fiori; una tigre viva scorrazza per le stanze di una casa di Buenos Aires per il resto assolutamente ordinaria. Il significato di queste favole, quale senso allegorico o satirico volesse dargli l’autore erano tutte cose che non ci importava di sapere. Il loro umorismo si sposava con il nostro stato d’animo: assurdo, irriverente, nostalgico di qualcosa che non era ancora successo. Sotto l’influenza della voce narrativa di Cortázar, che lasciava intendere che la realtà era una finzione, giravamo per i negozi vicino alla scuola chiedendo se vendessero fulsos (una parola che ci eravamo inventati noi), e con nostro immenso divertimento un vecchio merciaio ci disse che al momento non ne aveva, ma che gli sarebbero arrivati presto. Era la prova che Cortázar aveva ragione. Diventammo seguaci di Cortázar. Leggevamo avidamente i racconti di Fine del gioco, Tutti i fuochi il fuoco, Storie di cronopios e di famas. Capivamo cosa voleva dire quando parlava dei pericoli di portare a spasso una creatura innominabile attraverso la città, di andare a vedere un’opera teatrale e ritrovarsi improvvisamente sul palco, di essere trasportati dal tavolo operatorio di un ospedale all’altare sacrificale di un antico sacerdote azteco. Questi incubi avevano un senso per noi: non sapevamo, all’epoca, che descrivevano anche qualcosa di simile allo spirito dei tempi che si profilavano. La sanguinaria dittatura militare degli anni ’70 ci attendeva. Quando finalmente lo incontrai di persona, era già uno scrittore famoso, il giocoso narratore che condivideva l’umorismo crudele di Buzzati e l’occhio onirico dei surrealisti.
Ero arrivato a Parigi pochi mesi dopo il maggio del 1968 ed ero andato a vederlo. L’uomo che incontrai era un gigante con la faccia da bambino, un sorrisetto sempre disegnato sul viso. Si offrì di guidarmi per la città. Mi mostrò il passaggio ad arco dove Pierre Curie era stato investito e ucciso da una carrozza, e dove Marie Curie aveva raccolto i pezzettini sparsi del suo prezioso cervello; mi portò a place Dauphine, l’apertura triangolare sulla punta dell’Île de la Cité, che Aragon chiamava «il sesso di Parigi»; mi indicò il busto di Apollinaire fatto da Picasso di fronte al Café Bonaparte, e mi suggerì di fotografarlo di fronte al suo graffito preferito: L’imagination au pouvoir. Scriveva ancora opere di narrativa, ma passava gran parte del suo tempo a cercare di dare una risposta alle lotte politiche in America Latina. La Rivoluzione cubana era vista come una promessa dalla maggior parte degli intellettuali, e Cortázar si era schierato con convinzione dalla parte di Castro. Per lui, che aveva volontariamente preso le distanze da Buenos Aires, il luogo che ancora chiamava casa, una reazione artistica non sembrava abbastanza: ci voleva una risposta politica, una prise de position.
Invece di scrivere i racconti fantastici per cui era diventato famoso, tentò una forma di scrittura più realistica, documentaria perfino. Tentò e fallì. Quei racconti accusatori e il suo romanzo Libro de Manuel suonavano come qualcosa di vuoto, a dispetto di queste buone intenzioni (o forse proprio per esse). La cosa paradossale è che Cortázar stesso era più che consapevole dei pericoli di una letteratura scritta per senso del dovere. Nel 1962, parlando a un pubblico di cubani all’Avana, disse che credeva fervidamente nel futuro della letteratura cubana. «Ma questa letteratura», disse, «non dovrà essere scritta per obbligo, seguendo gli slogan del momento. I suoi temi nasceranno solo quando sarà arrivato il loro momento, quando lo scrittore sentirà il bisogno di modellarli in racconti o romanzi, poesie o opere teatrali. E allora veicoleranno un messaggio profondo, che suonerà vero perché non saranno stati scelti per ragioni didattiche o di proselitismo, ma perché una forza irresistibile colpirà lo scrittore, che facendo appello a tutte le risorse della sua arte e del suo mestiere, senza sacrificare niente a nessuno, trasmetterà la loro forza al lettore » . Sfortunatamente, Cortázar non seguì il proprio stesso consiglio. Poi, all’improvviso, alla fine degli anni ’70, ancora fedele alle sue vecchie idee politiche ma disilluso, tornò alla scrittura fantastica nel suo ultimo libro,Disincontri.
Magicamente, molti di questi racconti si dimostrarono non solo brillanti esempi di un Cortázar al meglio della sua vena fantastica, ma anche fra i racconti politici più pregnanti scritti in spagnolo in quegli anni, anni caratterizzati soprattutto dalla letteratura dello sdegno innescata dalle dittature che erano spuntate come funghi in tutta l’America Latina. In Tara, un gruppo di guerriglieri cerca rifugio dai soldati in un villaggio povero e sperduto e il loro capo trova nei giochi linguistici a cui ama dedicarsi la rivelazione che gli consentirà, prima della sua morte, di comprendere il male che sta combattendo.Incubo, forse l’ultimo racconto scritto da Cortázar, è, sotto molti aspetti, un pendant di Casa occupata, solo che in questo caso la presenza invaditrice è nella mente di una donna in coma, mentre quelli di fuori — la sua famiglia — possono soltanto assistere all’invasione da bordo campo. Il momento della comprensione si sovrappone a quello della distruzione finale, quando la visione della donna incosciente coincide con un assalto dal mondo reale. Chiunque abbia letto il rapporto sui desaparecidos argentini (pubblicato anche in italiano con il titolo Nunca más) comprenderà con esattezza la sovrapposizione di queste due atroci conclusioni. Per cosa sarà ricordato Cortázar? Mi arrischio a suggerire che anche lui, come uno dei suoi personaggi, subirà una metamorfosi. La realtà comune che gli si è attaccata come una seconda pelle — le lotte politiche, i difficili affari di cuore, l’intricato mondo della letteratura con la sua passione per le novità e i pettegolezzi — svanirà pian piano e quello che rimarrà sarà lo straordinario narratore di storie soprannaturali, in delicato equilibrio tra l’indicibile e quello che dev’essere detto, tra gli orrori quotidiani di cui sembriamo capaci e gli eventi magici di cui ci fanno dono ogni notte i labirintici recessi della mente.
(Traduzione di Fabio Galimberti)