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 2019  settembre 15 Domenica calendario

«Non si affitta ai meridionali»

"Non si affitta ai meridionali” era un cartello disarmante nella sua normalità. Spuntava di fianco ai portoni, nelle case dei quartieri di mezzo: non estrema periferia come Mirafiori o la Falchera. E nemmeno centro ricco come la Crocetta. Ma in quelle aree socialmente grigie, come Santa Rita, che ambivano alla ricchezza delle zone centrali e temevano la povertà dei nuovi quartieri, cresciuti a dismisura (e senza alcuna programmazione) con l’espansione degli stabilimenti della Fiat. Tra il 1951 e il 1971 Torino era passata da poco più di 700 mila abitanti a 1,2 milioni. Quasi un raddoppio. Si diceva che dopo Napoli fosse la seconda città meridionale d’Italia. Circa 400 mila persone si erano trasferite dal Sud per lavorare in fabbrica. I palazzoni delle case popolari erano presi d’assalto prima ancora che terminassero i lavori del cantiere. C’era fame di case. A Mirafiori si affittava a turni: lo stesso letto serviva di giorno per chi lavorava di notte e viceversa. La città viveva allo stesso ritmo della catena di montaggio. Il “fordismo sociale” funzionava così. E nei quartieri di mezzo, quelli degli impiegati di alto livello e dei dirigenti di fascia bassa, si temeva l’invasione. “Non si affitta ai meridionali” funzionava come muro sociale prima ancora che culturale contro l’invasione dei poveri.
C’erano voluti 15 anni perché quel muro diventasse uno scandalo. Venisse raccontato per ciò che era davvero e che forse nemmeno chi scriveva i cartelli aveva capito: la prima discriminazione su base etnica in un Paese di emigranti. Ci volle la campagna elettorale del 1975, la rivolta dei comitati di quartiere spontanei animati insieme da comunisti e cattolici, per abbattere la barriera, eleggere la prima giunta di sinistra di Diego Novelli e ricucire la città mescolando, per quanto possibile, le periferie dei meridionali e i quartieri dei torinesi di lungo corso. Il lavoro diede frutto: Torino tornò ad essere una città unica, più amalgamata.
Ma la ferita lasciata da quei cartelli non è facile da cancellare nemmeno oggi, a tanti anni di distanza, con l’immigrazione dei poveri dell’Africa che, solo in teoria, dovrebbe aver scalzato i pregiudizi verso i napoletani e i calabresi. I magrebini che lavorano ai mercati generali, come quelli che vendono le collanine per le strade, spesso usano il piemontese per farsi accettare dai loro interlocutori. Un’apparente assurdità. A Torino nessuno parla più il dialetto da almeno quarant’anni, com’è ovvio in un luogo dove quella parlata tagliava fuori metà degli abitanti. Perché ancora oggi i nuovi arrivati lo utilizzano? Per dimostrare che sanno entrare in relazione con la classe dirigente della città e che dunque non sono “meridionali” anche se arrivano da Casablanca. Scorie, effetti di lungo periodo. Torino ha oggi altri problemi. Nessuno fa a pugni per avere un alloggio. La città si spopola. Spesso deve imparare l’inglese per rispondere al capoufficio che sta all’estero. I cartelli non si trovano più. C’è solo un palazzo su cui è rimasto metaforicamente appeso “Non si affitta ai meridio nali”. È il palazzo del Comune dove mai ha abitato, a cinquant’anni dalla grande immigrazione, un sindaco di origine meridionale. Sarà certamente un caso. Forse.