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 2019  settembre 15 Domenica calendario

La scissione dei renziani è vicina

Giovanna Vitale, la Repubblica
L’accelerazione impressa da Matteo Renzi non ha sorpreso più di tanto il Nazareno. Da mesi l’inner circle del segretario Nicola Zingaretti lavora per sminare il terreno, sottrarre al senatore di Firenze ogni pretesto di scissione. Ma adesso che il momento sembra arrivato (anche se non tutti nel Pd sono d’accordo: «Matteo è bravissimo ad alzare la tensione, da qui a uscire davvero ce ne corre») si preparano le contromisure. Obiettivo: provare a sterilizzare gli effetti dell’addio, se proprio non si dovesse riuscire a trattenerlo. Opzione, quest’ultima, di gran lunga preferita. «La nascita di un nuovo gruppo fuori dal Pd ma in appoggio al governo creerebbe tali e tante fibrillazioni all’interno della maggioranza che il Conte 2 non durerebbe più di sei mesi», è il vaticinio di un ministro dem. Con tanti saluti al pericolo Salvini e alla messa in sicurezza del Paese: ovvero le motivazioni addotte da Renzi per giustificare il cambio di linea sull’accordo coi grillini. Che lui però giura continuerà a sostenere: «Noi non staremo all’opposizione» va ripetendo ai suoi. Pronto a fare un passaggio con il premier e con Di Maio, per rassicurarli entrambi, quando i gruppi si faranno. Luigi Marattin potrebbe guidare quello della Camera, Teresa Bellanova diventare la capodelegazione dentro l’esecutivo.
Nel frattempo, il Nazareno non resterà a guardare. Già delineata la strategia: rendere meno persuasiva l’iniziativa separatista del Giglio Magico. Agli occhi del suo capo, innanzitutto. Cercando di convincerlo che è più conveniente ri manere nel Pd anziché gettarsi in un’impresa che a molti – in quel di Cortona dove è riunita Areadem, la corrente di Dario Franceschini – ricorda l’avventura di Rutelli nel 2009. «Anche allora», dice un esponente della ex Margherita, «Francesco era convinto di portarsi via una quarantina di parlamentari e un pezzo di Forza Italia, ma quando l’Api vide la luce non erano più di dieci». E Renzi ora rischia il bis. «Una rottura adesso rischia di risultare incomprensibile», argomenta infatti Roberta Pinotti: «Visto che il Pd ha seguito la sua linea e il governo è partito, Matteo dovrebbe spiegare perché lo fa. Perché non ha avuto abbastanza sottosegretari? Non è sostenibile. Perché secondo lui l’alleanza con il M5s doveva durare per un tempo limitato, giusto per sterilizzare l’Iva e cambiare la legge elettorale, invece di darsi l’intera legislatura come orizzonte? Mi sembra un argomento debole».
Per questo Zingaretti & Co. nutrono dubbi che alla fine il fiorentino leverà l’ancora. Una manovra che comunque si tenterà di ostacolare in tutti i modi. Pubblicamente con un serie di appelli a ripensarci. «Tornare a Ds e Margherita? No grazie”, taglia corto Maurizio Martina, «così si finisce solo per aiutare la destra». Di più: «Sarebbe la fine del Pd», twitta il sindaco di Pesaro Matteo Ricci. «Dovremmo discutere di come affrontare i problemi del Paese, non di come e se dividerci», avverte il vicesegretario Orlando. Anche lui fra i pontieri già all’opera, insieme a Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, per tentare di sventare lo scisma. Offrendo la riforma del partito.
Entrato in una nuova fase rispetto al congresso il Pd può ora rivedere i propri assetti, cambiare (subito la presidenza) e allargare (la segreteria), dove il senatore di Firenze e i suoi potranno tornare protagonisti, se lo vorranno. «Anche se non sono sicuro che basterà», riflette amaro uno degli uomini più vicini a Zingaretti: «Renzi ha avuto tre ministri e cinque sottosegretari; Gualtieri ha liberato il seggio in Europa per un fedelissimo, la Bonafé è vicepresidente del gruppo Socialista a Strasburgo… La verità è che lui fa sempre più uno, alza il prezzo perché vuole una scusa per andarsene», sbuffa un esponente zingarettiano. Perciò il piano B è già pronto: prosciugare il terreno della diaspora. Convincere i renziani che è meglio scegliere un approdo sicuro che correre verso l’ignoto.

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Claudio Bozza, Corriere della Sera

Riempite tutte le caselle del nuovo governo, Matteo Renzi avvia la scissione dal Pd. Il logo è pronto, ma top secret: la svolta potrebbe arrivare addirittura prima della Leopolda del 19 ottobre, creando due nuovi gruppi in Parlamento. Oggi sono 18 i deputati e 6 senatori pronti a seguire l’ex premier in questa nuova avventura, che potrebbe condurre a breve a fondare anche un nuovo partito. L’accelerazione è arrivata dopo che Renzi non è riuscito a incassare quanto chiedeva: 5 tra viceministri e sottosegretari (solo 2 alla fine: Anna Ascani e Ivan Scalfarotto), dopo aver ottenuto i dicasteri di Famiglia e Agricoltura. 

Ma se l’ex premier accelera, sono diversi, nel partito, a frenare sull’ipotesi scissione: «Nel Pd ci sono tante sensibilità, se qualcuno ci lascia non mi sento più libero. Poi il destino ognuno se lo sceglie, ma non ne sarei felice», commenta il presidente del Parlamento Ue David Sassoli. «Il Pd dovrebbe discutere di come governare non di come e se dividersi», scrive su Twitter il vicesegretario dem Andrea Orlando. E l’ex segretario Maurizio Martina: «Tornare a Ds e Margherita? No grazie». Mentre Sandro Gozi invita a «lasciar stare la teologia»: «Nessuno scisma o aiuto al suicidio. Dobbiamo invece rafforzare la maggioranza e riorganizzare la politica italiana». 

A Montecitorio, per creare un nuovo gruppo, servono almeno 20 deputati. Per ora il pallottoliere è arrivato a 18, ma il vicepresidente della Camera Ettore Rosato è impegnato da giorni in una delicata campagna acquisti tra eletti del Misto e, soprattutto, tra gli anti Salvini di Forza Italia: Mara Carfagna è il principale interlocutore. 

Oltre a Rosato, tra gli scissionisti dem ci sono: Maria Elena Boschi, Silvia Fregolent, Marco Di Maio, Gennaro Migliore, la viceministra all’Istruzione Anna Ascani, Luciano Nobili, Roberto Giachetti, Luigi Marattin e il sottosegretario Ivan Scalfarotto, che assieme a Rosato è coordinatore dei comitati civici nati per superare il Pd. A sorpresa potrebbe esserci anche Catello Vitiello, espulso dal M5S prima dell’elezione. Resteranno invece nel Pd buona parte dei parlamentari della corrente di Base riformista, guidata da Luca Lotti e dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini. In questo quadro, in Parlamento, si formerebbero due gruppi renziani: i «falchi» della nuova formazione e quelli dell’ala più moderata, dove potrebbe arrivare l’addio di qualche scontento. 

La raccolta 

L’ex premier è tornato a caccia di fondi, con cene a Milano da 5 mila euro a testa 

Al Senato la partita è un po’ più complicata, perché il regolamento non consente la creazione di un gruppo autonomo. I renziani, con l’ex premier in testa, potranno soltanto formare una componente all’interno del Misto, con la ministra Teresa Bellanova, l’ex tesoriere del Pd Francesco Bonifazi, Davide Faraone, probabilmente Nadia Ginetti ed Eugenio Comincini. Resta da capire quali saranno le mosse di un altro iper renziano come Andrea Marcucci: il capogruppo al Senato rimarrà nel Pd? Oppure lo farà solo in un primo momento per un addio in seguito? 

Il primo obiettivo di Renzi, con la creazione di gruppi autonomi, è di vedersi riconosciuto formalmente il ruolo di «importante azionista» del governo per sedersi al tavolo delle nomine. Quelle da fare a breve sono pesanti: il rinnovo dei vertici di Cassa depositi e prestiti, AgCom, Inps, Enel, Eni, Leonardo, Poste e Terna. Mentre a medio termine, con l’approvazione di una nuova legge proporzionale, l’obiettivo è tornare ad essere decisivo anche con un peso di consensi decisamente inferiore rispetto a quando era il paladino del maggioritario. 

L’ex premier, da gennaio, in vista della creazione del suo nuovo partito è anche tornato a caccia di finanziatori con la sua nuova Matteo Renzi Foundation, dopo che la precedente Open aveva raccolto 6,7 milioni in sei anni. Nell’ultimo periodo, l’ex premier ha intensificato, a Milano, cene da 5 mila euro a testa in su con imprenditori, manager e mondo della finanza. In prima linea, tra i nuovi sostenitori, ci sarebbe Daniele Ferrero (patron di Venchi, cioccolateria che ha fatturato oltre 100 milioni nel 2018), ma anche il noto finanziere Francesco Micheli e pure Gianfranco Librandi, deputato Pd (ex Pdl e FI) e imprenditore lombardo con una fitta rete di contatti.