il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2019
I 400 neologismi sul Devoto-Oli
Vale per la lingua ciò che vale per la terra. La lingua è viva, ma non solo: è madre. Dinnanzi al mondo che muta, essa genera sempre parole nuove. Alcune graziose come “inzupposo” – si dice di biscotto, che è particolarmente permeabile – altre orribili (eticamente) come “antimigranti” – nel linguaggio giornalistico o nella querelle politica, proprio di chi si oppone sistematicamente all’accoglienza dei migranti e al riconoscimento dei loro diritti –, o “nerdare”, che nello slang giovanile equivale a dedicare molto tempo a videogiochi, serie televisive, nuove tecnologie e, più in generale, a tutte le passioni tipiche di un nerd, sostantivo preso in prestito dalla lingua anglosassone. Tutti questi e altri neologismi possiamo scovarli nel Nuovo Devoto-Oli, edizione 2020, degli eponimi creatori Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, cui si sono aggiunti come autori Luca Serianni e Maurizio Tifone, che opera una cosciente svolta ecologica grazie all’uso di carta certificata, un accordo con l’associazione Treedom che darà vita in Sicilia alla foresta “Gli alberi e le parole”. L’edizione odierna prevede 75.000 voci, 250.000 definizioni e 45.000 locuzioni, anche 400 risultati tra neologismi e nuovi significati. Altri esempi? “Rimpiattare”, recuperare gli avanzi di un pasto per rielaborarli e servirli nuovamente, o “instragrammare”, pubblicare e condividere sul famoso social.
Già lo scrittore e critico letterario Alfredo Panzini nel lontano 1905 raccolse i neologismi scientifici e giornalistici a lui coevi in Dizionario Moderno, registrando così la naturale tendenza di procreazione della lingua italiana (e di ogni lingua). Le forze che spingono alla formazione di nuove parole possono essere endogene (interne alla lingua stessa) o esogene (provenienti dalle altre lingue).
Eppure, sorge un dubbio: così trascinati nostro malgrado verso una lingua futuribile, non stiamo forse obliando la sua memoria? Non a caso la memoria viene spesso associata nella nostra cultura all’idea di tesoro: Sant’Agostino scrive di un palazzo della memoria e Petrarca di uno scrigno colmo di gemme. Quante sono, allora, le parole che ci lasciamo alle spalle ma, soprattutto, quanto dimentichiamo e perdiamo di noi con la loro scomparsa?
Già nel 1993, nel Saggio La ricerca di una lingua perfetta, Umberto Eco manipolava il mito della Torre di Babele per esplorare il concetto di koiné (lingua unica), augurando alle generazioni venture che una corretta e “vigilata” commistione delle lingue potesse crearne una, appunto, “perfetta” che serbasse e allo stesso tempo generasse memoria. Un’utopia che, a oggi, sembra non essersi avverata per via di un forte squilibrio tra quelle forze endogene ed esogene (in favore delle seconde) cui si accennava prima. Le nuove generazioni e i nuovi media sono terreno fertile per forestierismi e tecnicismi. Giunge all’uopo il Nuovo Devoto Oli con tre rubriche salva-italiano. “Per dirlo in italiano”, che propone alternative alle imperanti espressioni inglesi (“carta fedeltà” per fidelity card, o “gara” per match); “questioni di stile” che illumina le sfumature di parole che erroneamente si intendono appurate (“alcuno” al singolare è un sinonimo più elevato di “nessuno”, mentre al plurale ha funzione di articolo partitivo); e “parole minate”, che corregge gli errori più comuni.
Queste rubriche intercettano una sempre crescente curiosità filologica degli italiani, ben testimoniata anche dal volume La Crusca risponde. 2006-2015, terzo della serie inaugurata nel 1995, che raccoglie circa duecento quesiti sul lessico e sulla grammatica italiana. Tra le più curiose: il romanesco “scialla” così in voga tra i giovani sarebbe un melting-pot dall’arabo inshallah (letteralmente “grazie a Dio” ma usato come intercalare). A dimostrazione che, allora, la ricerca della lingua perfetta forse è ancora possibile.