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 2019  settembre 15 Domenica calendario

Intervista a Enzo Garinei

Enzo Garinei arriva da Santa Marinella, settanta chilometri da Roma: ultimi raggi di sole della stagione, ultimi bagni, “anche se non so nuotare”; Enzo Garinei è in leggero ritardo “per problemi di parcheggio”. Guida? “Sì, però non corro, sto attento”.
Ha novantatré anni.
Non li dimostra.
Quando parla è giusto guardarlo tra gli occhi e il sorriso, come una proiezione in cinemascope: ha lo sguardo e il sorriso identico a quando girava con Totò, Mastroianni o chiunque altro big della storia del grande e poi piccolo schermo; film comici, seri, drammatici (“nel 1960 ero a Venezia con Citto Maselli per I delfini e l’anno dopo a Cannes con La ragazza con la valigia di Zurlini, uno di quei registi che si innamorava sempre dell’attrice principale, in quel caso la Cardinale”); lui dagli anni Cinquanta è spesso presente, anche un cammeo o poco più e per ben 108 volte; lui rientra nella categoria “caratteristi”, uno degli ultimi di una compagine gloriosa, maschere che hanno arricchito la storia del cinema, caratterizzato momenti e battute, “proprio per questo non siamo attori di grado inferiore, anzi”.
Ogni tanto quando racconta cita, testuali, le battute di film di cinquanta o più anni fa e quando ricorda la sua carriera da doppiatore – non secondaria – cambia tono e si trasforma in Lionel Jefferson, protagonista dell’omonima serie televisiva statunitense. Si diverte. Ama divertire. Sa qual è il valore della risata, quanto è complicata la leggerezza, quanto è seria l’ironia, soprattutto dopo che “ti muore un figlio: Andrea è stato un bravissimo attore e ci tengo a tenere in vita il suo ricordo. Ma ne parleremo dopo, solo se vorrà…”.
Suo fratello Pietro, insieme a Giovannini, è il genio della commedia musicale, da Rugantino ad Aggiungi un posto a tavola (“mi raccomando, non lo definisca musical, quello è un’altra cosa”).
Insomma, i caratteristi sono sottovalutati.
Sì, e me ne sono reso conto al funerale di Carlo Delle Piane: per noi è necessario morire per ottenere considerazione.
Per capire il reale valore.
Eppure sono in grado di interpretare qualunque tipo di personaggio, ma non sono un primo attore, non me ne frega niente, non me n’è mai fregato niente, ma senza i caratteristi non esisterebbero il cinema e il teatro.
Ha girato molto con Totò.
Con il principe sono stato sette volte su un set, il primo nel 1949, Totò le Mokò, e avevo il ruolo del palo nella banda criminale; poi anche Totò e Carolina (1953) per la regia di Mario Monicelli, film che ha causato qualche guaio al principe stesso: lì interpretava la parte di un celerino e allora Mario Scelba era ministro degli Interni (governo De Gasperi); in una scena Totò caricava una prostituta su una jeep per poi accompagnarla da un dottore, e a quel tempo era politicamente inconcepibile.
Totò.
Persona generosa, quando un attore era in difficoltà economica gli regalava 500 lire, e in quegli anni significava la metà di uno stipendio medio; e poi a differenza di altri grandi interpreti non si dava le arie, non si atteggiava, solo che quando finiva di girare, toglieva la bombetta, si spogliava degli abiti di scena, immediatamente tornava il principe Antonio de Curtis.
E arrivederci…
Non viveva tutto il giorno con la sua maschera di scena, non era come Carlo Dapporto che anche fuori dal set continuava a recitare le barzellette; (abbassa gli occhi) era un mondo meraviglioso e ho avuto la fortuna di lavorare con tutti i più grandi, e con tutti sono riuscito a costruire un rapporto bellissimo, forse perché sono cresciuto con una generazione di attori che amava profondamente la professione, a prescindere da soldi e fama; ciò non toglie che ognuno aveva le sue fissazioni.
Quali?
Totò voleva esser chiamato principe, come Mario Mattoli pretendeva l’appellativo di “avvocato”.
Come ha iniziato?
Ho perso mio padre all’inizio della guerra e per malattia, mio fratello Pietro è diventato subito il mio riferimento e allora la nostra famiglia viveva grazie a una farmacia aperta anni prima nel centro di Roma; un luogo particolare, non solo medicine e cure, ma punto di ritrovo per una serie di artisti, attori, registi, e allora era normale darsi appuntamento “da Garinei”.
Insomma…
Lì ho conosciuto tutti, era facile condividere, chiedere, incuriosirsi e venir coinvolti; un periodo entusiasmante durante il quale era normale mischiare le esperienze. E inoltre mio fratello aveva iniziato con la sua eccezionale carriera.
Un periodo fecondo…
Le do un esempio: per Alleluja brava gente Pietro e Giovannini crearono un vero linguaggio, qualcosa di inedito, che ha ispirato lo stesso Monicelli per L’Armata Brancaleone, e mio fratello scherzando non mancava di sottolinearlo a Mario: “Aoh, m’hai fregato la parlata”; insomma, come spiegavo prima, quelle erano commedie, storie, perché potevano tranquillamente venir solo recitate tanto da ispirare i registi cinematografici.
Però la musica non era solo un corollario.
Per forza, allora c’erano meravigliosi maestri come Armando Trovajoli o Gorni Kramer.
Monicelli.
Caratteraccio: ho assistito a litigate incredibili dentro al bunker tra lui, mio fratello e Giovannini.
Bunker?
Sì, la stanza privata di Garinei e Giovannini dentro al teatro Sistina, lì dove tutto nasceva e tutto veniva gestito.
Di cosa litigavano?
Non solo di arte, pure di Roma e Lazio, con dei “vaffanculo” o “non capisci un cazzo” terribili, quelli a gola strozzata; in quanto a urla pure Trovajoli non era secondo a nessuno.
Lei sul palco.
È ancora oggi la mia vita: per anni ho interpretato il sindaco in Aggiungi un posto a tavola per la regia di Gianluca Guidi, mentre nelle ultime tre stagioni sono “la voce di Dio”.
È contento?
All’inizio non lo so, ora sì e tutto è nato dopo un confronto con Gianluca stesso: “Hai una voce bellissima, riconoscibile, così puoi restare in galleria, in un palchetto, non ti massacri con trucco e parrucco, prove e quant’altro; e poi se un giorno non ti va di venire a teatro, mandiamo la registrazione della voce…”
E quindi?
Ho accettato, però a teatro vado quasi sempre e quando alla fine mi presento sul palco, dal pubblico parte sempre un urlo bellissimo, un lungo applauso, e stupiti dicono: “Ma allora è vivo!”.
Non sanno che lei guida…
E non mi perdo neanche una trasmissione politica, seguo tutto, perché socialmente provengo da un’antica tradizione socialista; mia moglie è anche peggio di me, ma lei è viennese, ha conosciuto l’occupazione cosacca e racconta sempre che quando sono arrivati a casa loro, a un certo punto, li ha visti lavarsi il viso dentro al water: non avevano capito cosa fosse.
Ha studiato e lavorato con Mastroianni.
Ci siamo conosciuti all’inizio delle nostre carriere, tutti e due iscritti al CUT, il Centro universitario teatrale; lui era l’uomo più semplice e timido mai conosciuto e frequentato.
Secondo Umberto Pizzi non un seduttore come in molti credono.
Lui? Macché! Una sera gli indico una donna: “Marcè, te piace quella?” “Sì” “Perché non ce provi?”. E lui: “Enzo, se devo scopare preferisco una puttana”. Però è vero, le donne ci provavano sempre, ho assistito a scene poi diventate sceneggiate.
Cioè?
Il giorno della partenza per la nostra prima tournée teatrale, destinazione Merano, a un certo punto in stazione si materializza Silvana Mangano, bellissima, innamorata di Marcello, piangeva disperata, inconsolabile, e lui un po’ imbarazzato: “A Silvà, mica vado in guerra, tra una settimana torno. Sta’ bona, calmate”.
Come andò la tournée?
Bene, portavamo in scena Dieci piccoli negretti da Agatha Christie, buone le critiche, e grazie alla regia di Carletto Di Stefano, bravissimo professionista per anni in quarantena perché scriveva sui giornali comunisti…
Dopo la guerra la sinistra ha poi egemonizzato.
Sì, certo, dopo è nato anche l’attore “del sistema”, piazzato ovunque e a prescindere.
Tipo chi?
Silvio Orlando da giovane: era un buon caratterista.
Ora è primo attore.
Ma tutti lo siamo: il personaggio è una caratterizzazione.
Lei non l’è mai diventato: come mai?
Non lo so, forse perché ero magrissimo, bruttino, però ho conquistato delle bellissime donne grazie al fascino dell’attore.
Gassman, Tognazzi, Manfredi, Sordi, Mastroianni. Chi il più bravo?
Tecnicamente Vittorio, talmente perfetto da risultare esagerato: ricordo un Riccardo III con lui protagonista, regia di Luca Ronconi, qualcosa di unico…
Ma…
Non amo sentire la recitazione, preferisco la naturalezza e Vittorio si è salvato con il cinema: con il grande schermo è stato costretto ad abbassare il diaframma e cambiare il suo stile.
Tecnicamente Gassman, artisticamente?
Mastroianni. Meraviglioso. In grado di coprire un’ampia gamma di personaggi.
Amico con Gassman?
Lui era complicato. Durante le riprese de La ragazza del palio, girato tutto a Siena, spesso andavamo a cena insieme, ma era impossibile mantenere una conversazione normale e rilassata, dopo un po’ calava il ritmo e si finiva nel silenzio; allora cambiavo argomento. Inutile: stessa storia.
Insomma?
Vittorio era difficile capirlo, anche a colazione non interagiva, preferiva leggere, restare con se stesso; Sordi era un po’ più aperto di Vittorio, ma non troppo dissimile nei silenzi.
Come mai?
Sembravano persone che non amavano troppo il proprio mestiere, oppure lo amavano ma solo per se stessi.
Ha lavorato con Tomas Milian.
Che attore fantastico, un genio, il pubblico non se ne rende conto solo perché lo immedesima con il ruolo de “Il Monnezza”, al contrario aveva la capacità di tenere molti ruoli (si ferma un paio di secondi); con lui ho girato alcuni cult come Delitto in Formula1.
Per strada con quale film la riconoscono maggiormente?
Ne Il ragazzo di campagna con Renato Pozzetto, interpretavo il portiere dello stabile a Milano (e recita la parte): tutta la scena dura appena cinque minuti ma è famosissima. Questa è la forza del caratterista.
Secondo Cecchi Gori per il set è fondamentale la roulotte.
È vero, e l’ho capito subito con Totò: prima della scena ci radunavamo con lui per studiare la parte e Mattoli spiegava le sue intenzioni; alla fine, quando il regista si allontanava, il principe dettava la sua strada a tutti: “Scordatevi quello che avete sentito, guardatemi”. Questo perché inventava al momento, e giocava con delle spalle uniche come Peppino (De Filippo).
La roulotte è pure altro…
È goliardia, grandi risate, socialità, spaghettate infinite come quelle tra Sergio Corbucci e Bud Spencer. E poi sesso: lì scattavano le scopate improvvisate. Ma se il cinema non lo vivi con gioia e divertimento, non è cinema.
Pure lei?
Mai avuta la roulotte, non sono mai stato un attore protagonista (e ride, di gusto). Bud Spencer sì.
Suo amico?
Abbiamo girato insieme in Colombia per Banana Joe, due mesi e mezzo a Cartagena, un’esperienza non piacevole: non amo i set così lunghi e poi vivevamo in mezzo a una povertà terribile, e una prostituzione diffusa.
Pericoloso?
Molto, circondati dalla polizia, ma non capivi mai se gli agenti erano presenti per proteggerti o per fregarti.
Come cura la memoria?
Leggo tutti i giorni sia i giornali che i libri, ma evito Internet, ho paura di venir irretito, di fissarmi e perdermi.
E oltre alla sua professione?
Amo le partite, tifo da sempre per la Lazio, ed era una passione comune con mio figlio; ancora oggi quando giocano mi piazzo davanti al televisore e accanto metto una sedia vuota, è come averlo al mio fianco, come un tempo quando gioivamo o ci incazzavamo; lui se n’è andato troppo presto e temo venga dimenticato, per questo quando mi assegnano un premio lo dedico sempre a lui. Se lo merita (chiude gli occhi e resta in silenzio).
Riceve molti premi?
Per il teatro capita, mentre dal cinema neanche uno, e non ne capisco il motivo. Mi piacerebbe, invece silenzio. Forse a Roma non sanno che sono sempre vivo. E soprattutto lucido. Quindi si sbrigassero.