il Giornale, 15 settembre 2019
Ancora su Gadda giornalista
Se c’è un campo poco adatto, sulla carta, alle acrobatiche doti scrittorie di Carlo Emilio Gadda, è quello giornalistico. Misure troppo brevi, tempi troppo stretti, la severità dell’occasione di cronaca, e la lingua, che le Sacrileghe Leggi della stampa vogliono: semplice, chiara, diretta. Aggettivi non compatibili con la prosa di Gadda: multiforme, allusiva, alta. Fra gliommeri e divagazioni. Lo sapeva lui stesso che su due colonne della Terza pagina la sua potenza linguistica avrebbe deragliato: «Io quando devo fare un elzeviro mi sento morire: annaspo annaspo con lo spettro del direttore e del suo pubblico di serve davanti al naso», scrisse nel 1948 a Silvio Guarnieri, conosciuto da giovane al caffè «Le Giubbe Rosse». Eppure, per più motivi (i soliti: la fame e la fama), Gadda – un inadatto di lusso agli scritti mercenari – si diede molto, e molto regalò, al giornalismo.
Il discrimine tra narrativa e saggista in realtà, nell’opera del Gadda, Ingegnere concesso alla Letteratura, è sottilissimo. Come dimostra bene la raccolta di saggi dispersi Divagazioni e garbuglio (Adelphi) che riunisce 60 scritti di varia natura usciti fra il 1927 e il 1966: pezzi radiofonici per la Rai (dove lavorò per i servizi di cultura del Terzo programma dal ’50 al ’55), testi d’occasione (conferenze e celebrazioni) e sopratutto articoli per quotidiani e riviste.
Curato da Liliana Orlando, la quale ha lavorato due anni per raccogliere e scegliere i pezzi («Gli scritti giornalistici di Gadda, dispersi fra molte testate – se c’è una cosa che non aveva era la fedeltà – sono moltissimi, oltre il centinaio: io ho scelto, secondo il mio gusto, fra i più significativi rispetto ai vari argomenti a cui si dedicò, e guardando anche ai più rari: qui pubblico alcuni articoli mai più visti dopo l’uscita sui giornali», come un articolo su Riccardo Bacchelli del ’41 per Il Secolo-La sera o uno su Giuseppe Giusti per il Corriere d’informazione del ’50), e diviso in sezioni tematiche (letteratura, lingua, arte, spettacolo, tecnica...), il volume dimostra due cose. Quanto fu faticoso per Gadda il terzo mestiere, dopo quello Ingegneristico e accanto a quello letterario. E quanto rimangono alte le sue performance anche fuori dalla pagina romanzesca.
Carlo Emilio Gadda – carattere difficilerrimo e stile unico – comincia a scrivere per i giornali negli anni Trenta con l’urgenza di farsi conoscere: La Madonna dei filosofi, del ’31, e Il castello di Udine, del ’34, lo avevano reso noto, sì, ma alla cerchia degli intellettuali. Poi, liberatosi dal cappio al collo degli affanni ingegnereschi e trasferitosi a Firenze, nel 1940, Gadda si mette a cercare i «lavori da pane immediato»: pezzi giornalistici che spera, rimanendo deluso, possano arricchirlo. Poi, dopo il successo del Pasticciaccio (1957) e della Cognizione del dolore (1963), le collaborazioni diventano «obbligative»: o per le pressioni dei direttori e degli amici (ogni volta che esce un libro di Bonaventura Tecchi, Gadda si agita perché non vuole fargli la marchetta!) o perché, sempre più stanco e assediato, non sa dire di no. Avete presente le promesse, i ritardi e i mezzi inganni con Garzanti e Einaudi? Ecco, la stessa cosa.
E la stessa prosa. Se in termini economici il risultato non vale l’impresa («Gloria nessuna, denaro poco, e noia molta», si sfoga nel ’41 con Lucia Rodocanachi), sul piano della scrittura – almeno per noi, oggi – è puro godimento. Sia che l’autore si getti in un’Apologia manzoniana su Solaria, nel ’27 (la più bella antipedanteria applicata ai Promessi sposi), sia che difenda il libro di Tom Antongini su D’Annunzio dalle stroncature di Corrado Alvaro e Enrico Falqui (su L’Ambrosiano, nel 1938), sia che firmi (controvoglia) un pezzo sulla Scapigliatura per l’Illustrazione italiana (’49) – «Se si fossero fatti tagliare i capelli, questi lendenoni! Ci avrebbero risparmiato questo capitolo parrucchieresco», si lagna con Contini), sia che recensisca Il male oscuro di Giuseppe Berto che sente affine alla sua Cognizione (per la rivista Terzo Programma che affiancava la rete radiofonica, ’65) sia che scriva d’arte o di teatro, per Il Giorno o per Il Mondo (non di Pannunzio, quello di Alessandro Bonsanti), l’effetto finale è il Gadda più puro e irresistibile si possa immaginare. «Tra romanzo e giornalismo per lui non ci sono differenze – spiega al Giornale la curatrice Liliana Orlando -: a entrambi Gadda riserva la stessa cura maniacale: scrive, riscrive, aggiunge, è un continuo lavoro di rifaciture, sostituzioni, correzioni, altro che scritto di getto!». Lingua e stile sono gli stessi. Gadda non semplifica affatto ad usum giornali, a costo di subire rimproveri dai direttori perché l’articolo è troppo lungo, troppo complicato, troppo tecnico. Nonostante ovviamente Gadda affermi il contrario, come si giustifica con Falqui a proposito di un elzeviro per Tempo accusato di essere troppo barocco: «Devo credere ormai che si tratti di dicerie artatamente denigratorie per eliminare un concorrente... i miei periodi osservano la più ortodossa, la più canonica sintassi: i miei vocaboli sono registrati nei vocabolari dell’uso, e nel senso in cui li adopero». E meno male che alla fine non cambiava una virgola. Immaginatevi cosa ci saremmo persi.
A proposto. Da non perdersi. La recensione del romanzo del cugino Piero Gadda Conti Gagliarda (L’Ambrosiano, 1932), per il quale lo scrittore consiglia il titolo «apertamente camorristico» Gadda pro Gadda e che invece il caporedattore trasforma in Gadda contro Gadda), un pezzo che vuole dire bene del parente senza dire troppo male del libro, e alla fine non accontenta né il recensore (che forse voleva stroncarlo) né il recensito (che forse si aspettava un soffietto), ma diverte molto il lettore. La polemica sul Giorno nel 1960 con Moravia, il quale sostiene che il cattolicesimo nei Promessi sposi sia propagandistico (Gadda l’ha letto dieci volte, eppure «preti-frati-monache-Cardinale» non gli hanno mai turbato i sonni). E i pezzi su Montale, del quale Gadda apprezza la poesia (pensava che il Nobel a «Turiddu» Quasimodo fosse una «asineria svedese»), ma che ritiene responsabile, per gelosia, della propria esclusione dalle pagine del Corriere della sera (e poi Gadda non sopportava che il «magno Corriere» concedesse tanto spazio a Buzzati, uno scrittore che a suo dire era un «Kafka + Landolfi irrancidito»). Ma queste, come sanno tutti i giornalisti, sono cose che nelle redazioni si ripetono sempre. Soltanto che oggi non ci sono più i Buzzati, né i Gadda.