Libero, 14 settembre 2019
Errori linguistici, perché parliamo male
Il plurale di “camicia” è “camicie”, con la “i”? Dove cade l’accento in “leccornia”? E in “pudico”? “Incinta” ha il plurale o no? “Perché” si scrive con l’accento grave o con quello acuto? Vera Gheno, sociolinguista, traduttrice dall’ungherese, che da anni gestisce l’account Twitter dell’Accademia della Crusca, nel libro Potere alle parole (Einaudi, pp. 160, 13 euro) non esita a darci dei cretini a partire dalla seconda pagina. Lo fa con gentilezza, avvisandoci eufemisiticamente che siamo troppo distratti e che soffriamo di pigrizia cronica nei confronti dell’unica caratteristica che ci rende propriamente umani, ovvero la parola: una insegnante – Gheno tiene un Laboratorio di Italiano Scritto all’Università di Firenze e presumiamo che il suo libro finisca anche sui tavoli dei suoi studenti – che comincia un volume dando degli idioti ai suoi studenti di solito non si classifica prima in simpatia. L’autrice dunque ci prende per mano, e per farci capire da soli che parliamo talmente male che sembra che le parole ci facciano schifo, ci instilla un dubbio: se non parlo correttamente, gli altri mi disprezzeranno? Ci saranno conseguenze sul lavoro? Rischio di perdere troppo tempo perché ci metto eoni a decifrare un documento? È solo nei «piccoli disagi quotidiani», infatti, scrive l’autrice, che «scopriamo di avere delle lacune», perché solo i traumi «dimostrano difficoltà legate all’uso degli strumenti linguistici “in ingresso” (mancata comprensione del messaggio) o “in uscita” (problemi a mettere in parole ciò che vorremo esprimere».
GLI ERRORI
Gli errori linguistici, scrive ancora, sono come una persona che dice bellissime parole d’amore ma soffre di alitosi. Questi errori «distraggono dal contenuto della comunicazione e si prendono inevitabilmente le luci della ribalta, concentrando su di sé tutta l’attenzione». Cui segue il giudizio: «Un collega snob di mia conoscenza», scrisse lo scrittore americano David Foster Wallace, citato varie volte nel volume, «ama dire che ascoltare la gente parlare in pubblico di solito è come guardare qualcuno che usa uno Stradivari per battere chiodi». Il manualetto della linguista fa notare le malattie di cui è affetta la nostra lingua: Italo Calvino, molti decenni prima dell’avvento dei social media, parlava di «peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva (…) come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche (…) a diluire i significati, a smussare le punte espressive». Il “linguistic whateverism”, cioè il pressapochismo linguistico, per esempio, di cui per la prima volta ha scritto Naomi Baron, linguista statunitense specializzata nell’evoluzione della lingua dall’avvento dei computer a quello degli smartphone e dei social network: nell’era digitale e dei social, infatti, e nella società della comunicazione – dove quest’ultima avviene per immagini che trasmettono significati elementari (la foto del proprio piatto, dell’abbigliamento, dei gattini) – usare bene la lingua italiana è sempre più difficile. Da un lato, il vocabolario si assottiglia (dei 145mila lemmi che contiene lo Zingarelli 2019, “una persona colta conosce tra le 15mila e le 30mila parole) e la necessità di essere brevi, soprattutto al telefonino, ci spinge a parlare per slogan e per frasi codificate. Dall’altro, entriamo in contatto molte più persone e quindi con sensibilità e livelli culturali diversi; ma non le conosciamo “dal vivo”, per cui non capirsi è molto più facile. Entrambe le motivazioni spingono a fare della lingua un codice sempre più standardizzato, i cui significati vengono “concimati” con gli emoticon e per brevità talvolta sostituiti del tutto dalle faccine. Risultato: si usano sempre meno parole, sempre meno sintassi, i concetti complessi vengono evitati: per cui quando bisogna esprimersi in maniera più articolata, molti non sono attrezzati per sostenere una conversazione, e per atrofia, neppure per “pensarla”.
L’EVOLUZIONE
Oltre ai malanni, però, Gheno guarda anche all’evoluzione della lingua: vi ricordate la storia di “petaloso”? Era il febbraio del 2016, un bimbo ferrarese di otto anni descrisse un fiore come “profumato e petaloso” e gli utenti di Twitter (ci cadde anche Matteo Renzi), ubriachi di gioia e di minchiate, andarono avanti per giorni. Ma, grazie a Dio, i social hanno un metabolismo che neanche Usain Bolt e il siparietto si concluse senza danni collaterali. Altro esempio sono i femminili professionali, ovvero ministra, assessora, sindaca. «La bruttezza non è un concetto linguistico», appunta Gheno, e «la discussione sul femminile dei nomi di professioni è solo un tassello in una questione molto più ampia». Con Potere alle Parole, la sociolinguista Vera Gheno ha scritto un manuale che passa in rassegna le nostre abitudini linguistiche e ci indica come superarle, e come riconquistare le parole. Perché la lingua svolge tre funzioni non accantonabili, pena la perdita della nostra umanità: definire se stessi, descrivere il mondo, comunicare con gli altri. La lingua è la nostra maggiore fonte di libertà; e se l’avessimo dimenticato, ce lo ricorda Vera Gheno: «Più siamo competenti nel padroneggiarle (le parole, ndr), scegliendo quelle adatte al contesto in cui ci troviamo, più sarà completa e soddisfacente la nostra partecipazione alla società».