Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2019
Urss, la tragedia dei bimbi randagi
Le guerre durano assai più a lungo del tempo del conflitto armato. Se poi accade, come in Russia, che alla prima guerra mondiale segua una rivoluzione e una guerra civile con conseguenti e diffuse carestie, le sofferenze subite dalla popolazione si moltiplicano geometricamente.
Una delle maggiori tragedie, vissuta da milioni di ragazze e ragazzi abbandonati nei tempestosi anni che vanno dal 1917 al 1935, è raccontata Luciano Mecacci in Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica, pubblicato da Adelphi. Non è un romanzo storico e neppure un saggio, ma un’attenta e puntuale ricostruzione di fatti che intreccia testimonianze dirette, pagine letterarie, poesie e resoconti di accadimenti che hanno dell’incredibile.
Interrogando le fonti e proponendocele con rara sensibilità, l’autore ricostruisce il destino di bambini e ragazzi che persero i loro genitori o furono abbandonati a causa della fame. Il libro si presenta come una vera e propria discesa all’inferno, scandita in 7 atti chiamati: «I figli del cuculo, Fuggire, Mendicare, Rubare, Uccidere, Prostituirsi, Drogarsi, Tormentare».
Ogni capitolo è introdotto da una poesia e il libro si chiude con una selezione di 36 fotografie e i versi di Majakovskij: «Guardiamo i nostri figli con tanto d’occhi: li accarezziamo, laviamo, puliamo, rasiamo. E accanto crescono odio e malattie, e il filo del coltello è rosso di sangue (…)».
Il crescere di odio e violenza come tratti inestirpabili nella vita di milioni di ragazzi di strada – si stima fossero oltre 7 milioni nel 1922, su una popolazione complessiva di meno di 150 milioni di abitanti – pone una questione che inquietò profondamente e inquieta ancor oggi chi non voglia nascondersi di fronte al diffondersi e radicarsi dei mali del mondo nei comportamenti dei più giovani.
Molti furono gli intellettuali che, nei primi anni della rivoluzione bolscevica, denunciarono la piaga dei besprizornye, talvolta impegnandosi in modo diretto per alleviare le loro sofferenze, come fece Chagall con la pittura fino al 1922, prima di abbandonare l’URSS per la Francia. «Con quale avidità dipingevano! Si gettavano sui colori come bestie feroci sulla carne (…) I loro occhi però non sorridevano affatto: non volevano e potevano. Io me ne innamorai».
Il problema è che un gran numero di intellettuali coinvolti nella lotta alla bosprizornost finirono per essere perseguitati e giustiziati, perché della gravità della questione bisognava tacere.
Il primo dato che emerge con nettezza sta dunque nel fallimento della maggior parte dei tentativi di reintegrare nella società questi ragazzi straziati dalla fame e costretti a fuggire di stazione in stazione, cercando riparo dal freddo in fogne e sotterranei o dormendo poggiati ai grandi calderoni per l’asfalto che si trovavano lungo le strade.
Gli orfanatrofi erano luoghi invivibili e, nella maggioranza dei casi, moltiplicatori di violenze e sopraffazioni. Il Poema pedagogico, che fece conoscere Anton Makarenko anche in occidente, narrava l’epico riscatto di un gruppo di quei ragazzi. Ma in quelle pagine veniva presentata «la vita dei besprizornye non tanto come era di fatto, quanto come avrebbe dovuto essere». Lo stesso Makarenko, infatti, mostrò «un rispetto misto a rammarico» per le continue e inevitabili fughe dagli orfanatrofi di stato, «vuoi perché il regime della vita quotidiana nelle colonie era troppo rigido, con una disciplina di tipo militare, vuoi perché il richiamo degli avventurosi viaggi in treno e delle scorribande nelle grandi città era troppo forte».
Del resto il potere sovietico, piuttosto che ardite sperimentazioni pedagogiche scelse la via spiccia della repressione brutale, abbassando nel 1935 l’età in cui si potevano giudicare e condannare a morte i ragazzi, già a 12 anni.
Alcune pagine tolgono il respiro tanta è la crudeltà narrata, perché documentano con dati e testimonianze puntuali, ad esempio, il diffondersi del cannibalismo. «Che la fame coinvolga i bambini nell’orbita dell’antropofagia come elementi passivi, non è più un fatto eccezionale: proprio per amore dei figli i genitori arrivano spesso a questo orrore. (…) Ma il carattere eccezionale è dato dal fatto che degli adolescenti hanno agito come antropofagi attivi, indipendenti, e si sono inoltre costituiti a questo scopo in bande», come testimoniano Lidija Vasilevskaja e Lev Vasilevskij nel loro Libro sulla fame, qui citato.
Persino nei gulag i besprizornye venivano vissuti dai detenuti più anziani come «il flagello più pesante». Solženicyn enumera gli insulti con cui sono accolti: «Bestiacce, peggio dei fascisti!», «Possiate crepare», «Li hanno mandati qui per farci morire!» («In quelle grida di invalidi c’è tanto odio che, se le parole potessero uccidere, li ucciderebbero»). E soffermandosi sulla loro condizione, nota come recepiscano «l’Arcipelago con la divina ricettività della fanciullezza e in pochi giorni diventino le peggiori bestie senza alcun concetto etico» poiché sono «completamente emancipati dalla società».
Emancipati dalla società, ma non per questo non utilizzati dal potere. Molti ex besprizornye furono infatti arruolati nella polizia segreta, che seppe utilizzare ai suoi fini i loro fragili profili psicologici, così descritti da Kolja: «Obbedivano incondizionatamente al capo e ai suoi metodi, attratti dalla sua determinazione. (…) Abituati a ragionare di momento in momento, badando a come sopravvivere qui e ora» per loro «il domani non esiste, esistono solo oggi e ieri». Il tipo di infanzia vissuta li portava a ad avere «né incertezza, né spavalderia, ma impassibilità e fermezza».
Moltissimi altri vennero arruolati nell’Armata rossa come carne da macello e il giovane Indro Montanelli, in una corrispondenza di guerra del 1941 si domanda «se Stalin, servendosene come paracadutisti vuole approfittare dei besprizornye per vincere la guerra o se vuole approfittare della guerra per sbarazzarsi di loro».
Pur narrando congiunture storiche lontane nel tempo, ci sono descrizioni e considerazioni in questo libro che sono tristemente attuali, se si pensa alle decine di migliaia di ragazzi di strada, per lo più di colore, trucidati negli ultimi anni in Brasile e al crescente diffondersi della criminalità infantile nelle megalopoli di diverse latitudini.
La presenza di queste bande, che in America latina vengono chiamate maras, sono pretesto per guerre sporche nelle periferie urbane e per ciniche speculazioni elettorali. Le domande inquietanti che indirettamente ci pongono molte pagine di questo libro così duro e necessario, riguardano la capacità e volontà che riesca ad avere una società che voglia far fronte e provare a riassorbire tanto odio e male e bisogno di violenza, penetrato nei corpi e nello spirito di bambini e ragazzi privati di ogni affetto e dignità.
Chi se ne occupa oggi nelle tante periferie del mondo, pur agendo in contesti assai diversi e meno estremi, sa che il proposito di reintegrare al vivere sociale chi ha subito violenze e privazioni sin dalla prima infanzia è una delle sfide educative più difficili.
La citazione che apre il libro è di Dostoevskij e recita: «Prima sfamateli, e poi chiedete loro la virtù».