Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2019
Storia del palazzo della Mondadori
Per un miracolo della prospettiva, quando gli aerei decollano da Linate e compiono la prima virata, il Palazzo Mondadori non appare schiacciato in basso, come solitamente si verifica per tutti gli altri edifici che gli stanno intorno, ma conserva il suo slancio, la sua eleganza, perfino il misterioso nascondersi dei vetri sotto le colonne protettive. È quasi impossibile che lo sguardo passi oltre perché il gioco delle arcate, su cui la luce del sole svolge il compito di rude carezza, ha il potere persuasivo di convincere chiunque a sospettare un tratto di originalità in un luogo che invece appare solo orizzonte piatto, punteggiato da pioppi, segnato da strade, binari, cavalcavia e con il miracolo di un pezzettino di cielo, stampato sul terreno a chiazze qua e là. È l’acqua del vicino idroscalo o del laghetto di fianco a creare l’effetto di uno specchio, a patto però che non ci siano nuvole e il cielo di Lombardia si presenti «così bello quand’è bello, così splendido, così in pace», come scriveva Manzoni.
La visione di Niemeyer
Credo sia questa la condizione meteorologica ideale per avvicinarsi all’edificio, sfiorare il laghetto che ha la forma di un ovale sbilenco, da cui spunta la scultura di Arnaldo Pomodoro che si chiama «Colonna dai grandi fogli», e girare torno torno al perimetro per comprendere una spazialità fatta prevalentemente di prati. Difficile dire cosa avesse immaginato l’architetto Oscar Niemeyer, quando fece i primi sopralluoghi in questa zona e “vide” – sarà il caso di usare questo termine che nella sua radice antica congiunge la nozione di idea con quella di sogno – una costruzione che doveva salire dal niente della pianura e suscitare meraviglia, sbalordire, incantare, imprigionare gli occhi.
Nelle foto che lo ritraggono in inverno, seduto a un gradino e con il cappotto addosso, Niemeyer ha lo sguardo di chi vive nella consapevolezza di appartenere a un altro, più nuovo occidente, com’è appunto il Brasile dov’era nato, abituato a osservare la vita dalla parte del tramonto, dentro quella luce calante di cui sono pieni i libri di Guimarães Rosa, García Márquez, Vargas Llosa.
Il paradosso sta proprio qui: siamo ai piedi di un edificio uscito dalla mente di un sudamericano, ma l’aria del tramonto non segna le pareti. Anzi la sensazione che si ricava è esattamente all’opposto: le campate di cemento armato traggono forza dall’est, che è il punto cardinale in cui si trova il palazzo rispetto alla planimetria di Milano.
Il luogo dove nascono le storie
L’oriente è il luogo dove nascono le storie. Questo ci ha insegnato la tradizione mediterranea e la sede pensata per un editore di forti ambizioni come Mondadori non poteva non essere collocata a est di una città che era e rimane la culla di una luminosa cultura politecnica.
Il palazzo non è soltanto un’icona architettonica, ma il segno di una discontinuità che in Italia ha significato il passaggio da una concezione artigianale di fare libri a una vera e propria produzione industriale, a un qualcosa cioè che avrebbe modificato sia la percezione del mercato, sia le sfide per adeguarsi ai parametri di una modernità entrata anche nei circuiti editoriali.
Per costruire l’immaginario di una nazione che solo pochi anni prima aveva registrato il più radicale cambiamento antropologico della sua storia bisognava creare una struttura dove le traiettorie del gusto incontrassero la regola della funzionalità, dell’organizzazione e di fronte all’enigma del tempo le risposte degli uomini godessero di quella libertà che viene concessa soltanto a ciò che è visionario. Prendiamo a mo’ d’esempio l’idea che capovolge il principio secondo cui ogni cosa, prima di cercare la verticalità, poggia sulla terra i piedi.
Qui accade il contrario. I cinque piani in cui ogni giorno arrivano 1.400 persone circa e si distribuiscono dentro ciascuno degli open space, lavorando a libri, copertine, riviste, collane, prodotti digitali, organizzazione delle librerie, comunicazione in rete, sono appesi a tiranti che scendono dall’alto. I pesci nuotano nel laghetto sotto la grande struttura, le persone camminano su una striscia di pietre che in un normale edificio sarebbe la base naturale. Qui invece tutto sembra capovolgersi e nel visitare i sotterranei, nell’addentrarsi dentro le zone inaccessibili, si avverte la complessità di un labirinto segreto: tubi, valvole, condotte forzate, manicotti, corridoi disegnati da condutture rettilinee.
Può sembrare impressionante ma Niemeyer aveva pensato qualcosa che non solo avrebbe resistito all’usura del gusto estetico, ma avrebbe anche retto alle accelerazioni tecnologiche. Gli impianti, infatti, sono gli stessi che furono inaugurati nel 1975, quando il palazzo prese a vivere nell’incredulità dei presenti, e uguali sono rimaste le soluzioni adottate per la climatizzazione e la pulizia dell’aria. Addirittura l’acqua prodotta dai sistemi di deumidificazione viene ripulita e inviata all’idroscalo. Soltanto l’illuminazione esterna è stata restaurata due anni fa per rinnovare il linguaggio delle arcate e renderlo adatto agli eventi dello spettacolo o della moda.
Nessuno può dire se fin qui si sia allungato il sogno che Niemeyer fece non appena Giorgio Mondadori gli propose di occuparsi del progetto, sul finire degli anni 60, quando era rimasto catturato dal suo lessico architettonico durante un viaggio in Sudamerica. Ma se anche le cose non fossero andate così, se anche Niemeyer avesse voluto trasferire un pezzo di Brasile nel cuore della pianura padana – lui che si era già avventurato in un’esperienza simile realizzando tra il 1962 e il 1964 Itamaraty, il Ministero degli Affari Esteri del Brasile -, le alchimie geometriche che si combinano nel levante milanese, a cui manca niente per mescolare l’azzurro del cielo con il verde dei prati, lasciano intendere un approccio alla vita dove il Novecento, il grande secolo delle apocalissi e delle utopie, segna uno dei suoi punti di maggiore trasversalità.
Pensiamo al linguaggio metafisico che sta dietro le architetture di De Chirico e che poi trova compimento nel Palazzo della Civiltà Italiana a Roma: un quadrato di archi, la cui regolarità produce un effetto di spaesamento. Niemeyer è andato oltre la metafisica degli archi, oltre la lezione di Le Corbusier che vedeva nel vetro, nell’acciaio e nel cemento la perfetta trinità dell’architettura chiamata a rappresentare il moderno. Niemeyer ha intuito che il secolo cercava il suo equilibrio nella dissonanza, nell’a-regolarità delle forme, nel principio del verso libero che aveva affrancato la poesia dalle gabbie dei numeri.
Credo ne abbia fatto il vangelo di questa costruzione: l’involucro esterno del Palazzo Mondadori si compone di 23 pilastri, uno in meno della più monotona misurazione del giorno, irregolari nella distanza, che disegnano una curvatura più larga o più stretta ma senza un motivo apparente, quasi a riprodurre lo schema di una metrica zoppa, il ritmo sincopato di una partitura jazzistica che vive di sospensioni e di accelerazioni. In ciò potrebbe nascondersi il segreto che ha determinato la volontà di innalzarsi al cielo senza pronunciamenti retorici, senza l’enfasi che in altri tempi aveva portato i carpentieri medievali a erigere chiese dai muscoli forti e dalle verità inoppugnabili. Sotto questo palazzo ci riconosciamo tutti figli di un secolo che ha cercato i suoi momenti di grazia nella semplicità di una stanza cubica e trasparente, nella linea di una matita che è partita dall’erba, ha tracciato un’orbita ed è ridiscesa nel suo habitat naturale: la terra bassa e piana, da cui prendono vigore, come figli di una stessa epoca, gli alberi e i circuiti elettrici, i libri e le campate in cemento.