Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2019
A tu per tu con la calciatrice Sara Gama
«Non si può più tornare indietro dopo il Mondiale in Francia e sta a noi gettare basi solide per consolidare lo slancio e tenere viva la scintilla che abbiamo acceso». Sara Gama, 30 anni, è la capitana della Juventus Women e della Nazionale italiana di calcio femminile. Le sue compagne bianconere stanno rientrando nello spogliatoio, dopo l’allenamento. È un pomeriggio fresco di pioggia che cerca un varco verso l’azzurro del cielo e i tacchetti delle atlete fanno una specie di tip tap sul granito del centro sportivo di Vinovo, prima cintura torinese, fra campi da calcio, palestre, il liceo sportivo-scientifico e tutte le strutture utilizzate dalla Juventus Women e dalle squadre giovanili della società.
«Stiamo vivendo una svolta epocale – continua la capitana -, ora dobbiamo scegliere a quale velocità andare per raggiungere gli standard dei Paesi top. Ci mancano assicurazione sanitaria e previdenza». Le calciatrici italiane, infatti, non hanno neanche uno stipendio, ma solo un rimborso spese, eppure lavorano come vere professioniste. Il Mondiale France 2019, che Sara Gama in un post ha definito «esaltante, estenuante, elettrizzante, emendabile, educativo, euforico», ha sdoganato il calcio femminile di casa nostra che, da fiume carsico, è diventato un’onda atlantica tanto che le iscrizioni alle scuole calcio hanno già fatto boom (+40%). Ma i vulnus sono ancora tanti, a partire dal fatto che le nostre calciatrici, uniche fra quelle dei migliori otto Paesi al mondo, sono dilettanti: «Il percorso verso il professionismo è lungo. Intanto, dobbiamo lavorare per step successivi. Un passo dopo l’altro, pochi proclami e tanta concretezza. Ad esempio, se si ridiscute l’accordo collettivo degli atleti della A maschile, dobbiamo prenderlo a modello per la A femminile e portare a casa, magari anche senza un cambio immediato del nostro status, il diritto ai giorni di vacanza e di malattia». Tutti elementi già presenti nei principali campionati femminili del mondo, basti pensare a quanto accaduto a luglio all’Ajax dove è stato firmato un accordo per la parità contrattuale fra uomini e donne, con uguali diritti garantiti a tutti i tesserati dei Lancieri, dal salario minimo all’assicurazione sanitaria (con garanzie in caso di infortuni) alle vacanze. Insomma, passi importanti verso l’“Equal pay for equal play”, magari mantenendo la purezza e la correttezza che le gare in Francia hanno mostrato al mondo: il calcio femminile è qualcosa di magico, un amore puro, che negli uomini non c’è più. È l’amore per il calcio in sé, non per il denaro che ci corre intorno, ma per il puro gioco. Come nei bambini.
La serie A femminile, cresciuta tanto negli ultimi anni dal punto di vista tecnico-tattico e fisico e iniziata ieri per la Juventus Women con la gara contro l’Empoli Ladies, nasce sotto auspici rivoluzionari. È vero, in Italia le tesserate restano poche (25mila) rispetto ai principali Paesi europei (corazzate da 100mila iscritte) o agli Usa (1,6 milioni), ma tutto si sta muovendo a partire dalle ragazzine che hanno trovato eroine e modelli nelle azzurre di Francia: «Con le mie compagne (quante volte Sara, da vera capitana, le cita, ndr), abbiamo deciso in modo naturale di assumere questo ruolo. Abbiamo iniziato a giocare a calcio perché ci piaceva, ci divertiva, e siamo arrivate alla ribalta. Sentiamo una grande responsabilità perché quando ottieni una determinata visibilità devi anche restituire qualcosa. Sappiamo di essere modelli, non ci resta che essere d’ispirazione per le baby atlete». Che vedono in Sara un esempio, un totem, tanto da chiedere ai loro papà la Barbie – ormai introvabile, però – realizzata due anni fa da Mattel con il volto della campionessa azzurra.
Fra prime pagine e rivoluzioni possibili, restano però impigliati ancora molti pregiudizi: «Dopo tanti anni, mi sono purtroppo abituata e cerco di non farci più caso, anche se mi disturbano assai. Sono lo specchio della nostra società: parole in libertà, senza conoscere, senza valutare. In parecchi si divertono a giudicare prima di vedere e a questo gioco non ci sto. Se invece le critiche sono costruttive ed elevano la qualità della conversazione, ascolto anche i giudizi più severi. Possono essere una base di dialogo da cui partire per migliorare». Perché il mondo è già così sgangherato da non aver bisogno di altra negatività: «Non nego le difficoltà. Ci sono. Non faccio finta che tutto vada bene, ma sono convinta che positività genera positività, bene porta bene, ed è responsabilità di ognuno, giorno dopo giorno, fare il bene per un mondo migliore, ognuno nel proprio spazio vitale». Auspicio di grande respiro, che vale più di un gol spettacolare e che ricalca il discorso di Megan Rapinoe, anima ribelle e pasionaria anti-Trump, capitana degli Usa, campioni del mondo 2019: «Dobbiamo essere migliori. Dobbiamo amare di più e odiare di meno. Dobbiamo ascoltare di più e parlare di meno. Dobbiamo sapere che questa è una responsabilità di tutti. Di ogni singola persona che è qui, di ogni singola persona che non è qui, di ogni singola persona che non vuole essere qui. È nostra responsabilità rendere questo mondo un posto migliore. Siate migliori, siate più grandi di quanto non siete mai state prima».
Si parla di calcio, ma è la vita: oggi Sara Gama è la nostra Megan Rapinoe, ne ha la medesima, dirompente statura umana. Le bambine la adorano, le ragazzine la prendono a modello, gli sponsor planetari la cercano. Lei, fiera con quei suoi occhi che brillano, guarda oltre le grandi vetrate della stanza in cui chiacchieriamo: «Nella vita non ho pianificato quasi nulla, non mi piace mettere paletti ma vivere il presente. Mi sono trovata nelle situazioni e le ho attraversate con la cassetta degli attrezzi che avevo a disposizione». Come quel giorno di luglio al Quirinale. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella aveva invitato le azzurre con la ct Milena Bertolini per un saluto dopo il Mondiale: «Quanta comprensione ho trovato – ricorda la capitana – negli occhi e nel sorriso timido del capo dello Stato». Poi, Sara ha ripercorso l’avventura bellissima del Mondiale, ha ricordato l’articolo numero 3 della nostra Costituzione, come la sua maglia numero 3, e, con naturalezza, ha alzato il capo dai suoi fogli, ha fatto una lunga pausa, per ricordarci chi siamo: «la Repubblica italiana, cioè tutti noi». Quel video, diventato virale, è una immensa lezione di educazione civica, è la nuova vita di Sara, donna, atleta, capitana, testimonial, consigliera federale e ora anche politica: «Mi viene naturale, come lo è stato quell’inciso davanti al capo dello Stato». Dal quale traspaiono valori antichi e fondanti: «In casa ho sempre sentito parlare di giustizia, lealtà, rispetto, condivisione, generosità e – lungo silenzio, quasi a sottolineare la sacralità di certe espressioni – di bene comune».
La Trieste di confine, in cui la calciatrice è nata, ha fatto da assist a questi valori: «La multiculturalità della mia città mi rappresenta al meglio e mi ha abituata al diverso e al confronto con l’altro fin da bambina. Sono sicura, ad esempio, che nel corso della prossima generazione i problemi di razzismo andranno scomparendo perché gli occhi e il cuore dei bambini si abitueranno a colori diversi di pelle, a lingue diverse, a tradizioni che non conoscono ma che li faranno crescere». Come è successo a Sara, figlia del confine, mamma istriana e papà congolese, curiosa di tutto, come l’Ulisse che lei ama ritrovare nell’Odissea, tanto da scegliere in carriera di andare all’estero per scoprire e imparare: «Ho voluto fare esperienze negli Usa e in Francia, dove, nonostante gli infortuni, sono cresciuta tanto perché ho toccato con mano il mondo del professionismo». Grazie al Paris Saint-Germain è stata la prima calciatrice italiana a giocare una finale di Champions League e grazie a Parigi ha concluso il suo percorso di studi universitari: nella capitale francese ha trovato i materiali per la tesi sulla storia del calcio, dalle partite in gonnelloni delle operaie inglesi della Dick, Kerr & Co, fino alle risoluzioni Onu sulle diseguaglianze di genere. La sua coscienza di politica e di paladina dei diritti nasce così e ora porta frutto per tutte le compagne che condividono il divertimento di questo sport: «Fin da bambina ho amato tirare calci a un pallone – ricorda -. Niente playstation, solo infinite partite in strada con i miei amici, tutti maschi, che poi, un giorno, a 7 anni, mi proposero di giocare con loro alla Zaule Rabuiese». Da lì un crescendo: gli anni alla Polisportiva San Marco, le esperienze in Friuli, al Tavagnacco e al Chiasiellis, poi Brescia, gli Usa, il Paris Saint-Germain, di nuovo Brescia, per approdare alla Juventus Women, in un clima che si è fatto friendly per il calcio femminile soprattutto dopo la scelta del 2015 della Figc di imporre ai club di serie A le squadre femminili.
Sara Gama, nata centrocampista e oggi muro della difesa (Alessandro Costacurta l’ha paragonata a Fabio Cannavaro), gioca d’anticipo perché legge le situazioni, in campo come nella vita. Ha prolungato il suo contratto con la Juventus fino al 2022 perché pensa a un’altra vita ancora, quella da manager: «È un’idea condivisa con la società, un percorso che parte e chissà dove porterà: me la gioco giorno per giorno, senza fretta». Per poi, chissà, diventare la prima manager donna in una squadra maschile: «I club sono ormai aziende a tutti gli effetti. Perché le donne non dovrebbero fare bene nel calcio, se si distinguono in aziende di altri settori? Non mi piacciono le quote rosa come principio a priori ma riconosco che hanno aiutato le donne a entrare in certi ambiti. Poi, in tutti gli ambiti, è la meritocrazia che conta, che premia, e così sarà anche per le donne manager nel calcio maschile».
Lei è donna rock nei pensieri, swing nei modi e concreta come quando spazza l’area di porta: con le lingue che parla (quattro più il triestino), con le esperienze maturate all’estero, con il senso civico che la guida, ha tutto per ricalcare i suoi adorati Queen: “Playing in the street, gonna be a big woman someday”.