Il Sole 24 Ore, 15 settembre 2019
Attacco con droni al petrolio saudita
Un attacco al cuore del petrolio saudita, di una gravità con pochi precedenti nella storia. Il bombardamento di due impianti di Saudi Aramco ha costretto Riad a dimezzare la produzione di greggio, secondo indiscrezioni, con una perdita di circa 5 milioni di barili al giorno: volumi pari al 5% dei consumi mondiali, di cui sarebbe difficile fare a meno e che domani alla riapertura dei mercati rischiano di provocare un’impennata delle quotazioni del barile (il Brent scambia attualmente intorno a 60 dollari).
Se l’entità del danno venisse confermata, sarebbe paragonabile solo a quello provocato dall’incendio dei pozzi del Kuwait da parte delle truppe irachene di Saddam Hussein nel 1991. Un disastro all’epoca anche ambientale – centinaia di pozzi bruciarono per oltre dieci mesi – mentre stavolta le preoccupazioni sono soprattutto di ordine geopolitico ed economico. Le fiamme sono state estinte nel giro di poche ore e Riad potrebbe anche riuscire a contenere il danno: secondo voci ufficiose che filtravano ieri sera, il pieno recupero degli impianti dovrebbe richiedere tempi brevi e nel frattempo i sauditi potrebbero rifornire il mercato attraverso le ampie scorte che ha accumulato non solo in patria, ma anche in Giappone, in Nord Europa e sul Mediterraneo. In caso di emergenza ci sono anche le riserve strategiche, che i Paesi Ocse sono obbligati a conservare.
Nella serata di ieri Donald Trump ha telefonato al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman per offrire il supporto degli Usa e questi gli ha assicurato che Riad «vuole ed è in grado di far fronte a questa aggressione terroristica». Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha accusato l’Iran, che «ha lanciato un attacco senza precedenti contro le forniture energetiche mondiali». Affermazioni che fanno temere una rappresaglia.
Quello che è accaduto è un duro colpo per Riad, che ha accelerato il processo per la quotazione in borsa di Aramco: gli attacchi evidenziano l’estrema vulnerabilità degli impianti della compagnia ed è probabile che ci sarà un pesante impatto finanziario (anche sui conti dello Stato saudita).
Il bombardamento – effettuato con dieci droni – è stato rivendicato dai ribelli filo-iraniani Houthi, che dal 2015 combattono in Yemen contro una coalizione militare a guida saudita. Alle prime ore dell’alba sono stati colpiti il secondo giacimento di petrolio del Paese, Khurais, in grado di produrre 1,5 milioni di barili al giorno, e il maxi-impianto di Abqaiq, nella Provincia orientale dell’Arabia Saudita, a 60 km dal quartier generale di Aramco a Dhahran. È quest’ultimo l’obiettivo più sensibile, già preso di mira dai terroristi di Al Qaida: l’attacco sferrato con due autobombe a febbraio 2006 fece una decina di morti, ma le forze di sicurezza saudite – a differenza di ieri – riuscirono a difendere l’integrità della struttura, in cui passano per una lavorazione preliminare due terzi dei barili di greggio estratti da Riad, che è responsabile del 10% delle forniture mondiali.
Con una capacità di 7 mbg Abqaiq è il più grande impianto di stabilizzazione al mondo, secondo l’americana Energy Information Administration (Eia): qui il greggio saudita (prevalentemente quello di qualità leggere) viene desulfurizzato prima di essere inviato via pipeline alle raffinerie e ai mercati di esportazione, attraverso il terminal petrolifero di Ras Tanura (anch’esso il più grande del mondo) e quelli di Jubail e Yambu sul Mar Rosso.
La sua importanza strategica di recente è stata messa in ombra dalle minacce alle petroliere nello stretto di Hormuz, all’imbocco del Golfo Persico. Ma Bob Mc Nally, ex consigliere della Casa Bianca, oggi analista con Rapidan Group, poco tempo fa aveva messo in guardia dal non sottovalutare l’importanza cruciale dell’infrastruttura: un attacco contro Abqaiq «se avesse successo potrebbe interrompere per mesi la maggior parte della produzione saudita». L’impianto «è una vunerabilità sistemica che non può essere rapidamente riparata, rimpiazzata o aggirata».
I bombardamenti di ieri riaccendono peraltro le tensioni tra Stati Uniti e Iran, proprio ora che Donald Trump sembrava disposto a riprendere le trattative con Teheran: una relativa apertura, che sarebbe stata all’origine del licenziamento del falco John Bolton, ormai ex consigliere per la sicurezza nazionale.
Un portavoce degli Houthi, rivendicando il bombardamento con un messaggio televisivo, ha minacciato l’Arabia Saudita di nuove e «più dolorose» azioni se Riad non interromperà le operazioni in Yemen. Il gruppo fino a poco tempo fa non disponeva di armi sofisticate, ma i droni impiegati ieri sono riusciti a percorrere una distanza di quasi mille chilometri, sempre che – come suggeriscono alcuni funzionari Usa – non siano in realtà partiti dall’Iraq.
Quello contro Abqaiq e Khurais non è il primo attacco contro obiettivi petroliferi negli ultimi mesi. In Arabia Saudita c’erano state due azioni analoghe, sempre rivendicate dagli Houthi: una prima a maggio contro due stazioni di pompaggio dell’oleodotto East West e un’altra ad agosto contro il giacimento Shaybah. In entrambi i casi non c’erano stati impatti sulla produzione petrolifera.
A maggio due petroliere saudite erano state attaccate nel Golfo Persico, mentre altre navi (tra cui una degli Emirati arabi uniti e una norvegese) avevano subito misteriosi sabotaggi al largo di Fujairah.