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 2019  settembre 14 Sabato calendario

Intervista a Tahar Ben Jelloun

Metti un pomeriggio, nell’appartamento parigino di Tahar Ben Jelloun, a parlare del suo ultimo libro, Insonnia. È la storia di uno sceneggiatore, che vive a Tangeri. E per dormire bene deve uccidere. Ma con lo scrittore franco-marocchino, 71 anni, la conversazione scivola via sempre verso orizzonti inaspettati. Ci si ritrova presto con una delle cuffiette del suo iPod nell’orecchio, ad ascoltare un brano dei Nass el Ghiwane. «In Marocco erano molto famosi negli anni Settanta – spiega -, un miscuglio di rock e ritmi africani». L’hanno ispirato per il suo nuovo romanzo, per certe atmosfere e personaggi. Nei libri di Tahar la musica, anche solo di sottofondo, non manca mai.
Cos’è «Insonnia»? Un thriller tragicomico?
«Mi piace questa definizione. È la prima volta che scrivo un polar, una sorta di giallo. E, a dire il vero, non era la mia intenzione. È arrivato da solo: non è male scrivere un libro per caso basta cominciare».
Il suo editore, Gallimard, e i suoi fan come l’hanno presa?
«Sono rimasti sorpresi. Forse avrei dovuto utilizzare uno pseudonimo, come faceva Romain Gary. Quando l’ho presentato in alcune librerie, c’erano miei lettori un po’ disorientati».
Lei soffre d’insonnia come il suo personaggio?
«Non adesso, ma ho vissuto momenti di assenza totale del sonno per alcuni giorni. Volevo, però, trattare il problema in maniera divertente e leggera, senza gravarlo di una scrittura angosciosa».
Il protagonista inizia con l’uccidere la mamma malata. Lei ha accompagnato davvero sua madre negli ultimi anni di vita.
«Furono tre anni di sofferenze. Il giorno in cui morì, pensai che avrei passato una notte orribile. E invece no, fu il contrario. Ero sollevato, perché si era liberata del suo dolore. Il mio inconscio mi aiutò ad avere un sonno profondo. Quando si esce da una prova difficile, si dorme bene».
L’accompagnò in qualche modo verso la morte?
«No, lei era molto credente. Non voleva assolutamente accelerare la fine. Era Dio a dover decidere. Non aveva paura della morte, ma sì (e io l’ho ereditato da lei) della malattia».
Il protagonista di «Insonnia» uccide per vivere?
«Soprattutto uccide per dormire. Ma alla fine vive molto poco, perché è uno sceneggiatore alla fine della carriera, che non ha tanto da fare. È disilluso. Trova che l’umanità non sia buona e così nella seconda parte del romanzo inizia ad ammazzare chi merita di essere ucciso, anche un torturatore dei tempi di Hassan II. E un trafficante di droga, un mafioso, un pedofilo».
Diventa quasi simpatico, una sorta di giustiziere…
«Non me ne sono reso conto scrivendo il romanzo. Ma alla fine provavo tenerezza per lui. In vari casi uccide chi merita di morire. Poi qualche volta sbaglia i suoi colpi, ma l’intenzione è quella».
Come sempre, anche in «Insonnia», con la sua carrellata di personaggi, lei è molto duro con il Marocco. Perché?
«Io non sono arrabbiato con il re attuale, Mohammed VI, che lavora bene e fa cose formidabili. Il problema è la classe politica, così mediocre. E poi il Marocco sta sprofondando nell’islamismo. I Fratelli musulmani, che lavorano di nascosto, s’infiltrano come l’acqua che scivola ovunque».
Non è esagerato?
«Guardi questa foto (ndr, la mostra sul suo cellulare). L’ho scattata quest’estate a Tangeri su una spiaggia dell’Atlantico. Una coppia: lui in costume e lei velata e vestita di nero da capo ai piedi».
Viene censurato in Marocco?
«No. Ho offerto Insonnia al re e mi ha detto che era molto contento. Gli mando sempre i miei romanzi. E lui legge, perché è un lettore appassionato, mica come era suo padre».
Forse lo avrà disturbato il riferimento al torturatore di Hassan II…
«Sinceramente, credo lo abbia apprezzato».
Nel libro non ci sono descrizioni dettagliate di Tangeri, ma la città resta sempre sullo sfondo. Lei, però, è nato a Fès…
«Sì, in una famiglia povera. Non avevamo neanche l’acqua corrente. Ma non eravamo gelosi di niente e di nessuno. I miei genitori mi hanno educato ad accettarmi per quello che ero, insegnandomi che, per progredire, dovevo lavorare, fare degli sforzi».
Tangeri cosa rappresenta per lei?
«Mi ci trasferii già per fare il liceo francese. È la mia città del cuore: rappresenta le prime volte di tante cose, anche quando mi sono innamorato. Poi allora vi si faceva una vita diversa rispetto al Marocco tradizionale, con tanti stranieri e scambi possibili di ogni tipo. Oggi è diventata immensa, moderna, con delle marine per i turisti. La nostra Tangeri era più provinciale».
In «Insonnia» molteplici sono i riferimenti musicali. Ma anche letterari e cinematografici. A un certo punto sbuca perfino «Il posto delle fragole»…
«Quel film di Bergman lo davamo al Cineclub di Tangeri, che io già gestivo a quindici anni. Il cinema mi ha aiutato molto a scrivere».
In un sogno il protagonista ascolta anche una voce italiana declamare: «O anime affannate, venite a noi parlar, s’altri nol niega».
«Ho iniziato a leggere Dante tantissimo tempo fa. Il suo odio per l’islam e Maometto è terribile. Come Voltaire, più tardi, e ancora dopo Claude Lévi-Strauss». 
Lei è credente?
«No, anche se i miei genitori lo erano. Quando ho studiato il Corano e i testi islamici (e l’ho fatto in maniera intensa), capii che la religione era stata creata dagli uomini per guarirli dalle loro angosce. Fornisce materia di civiltà a un popolo e a un Paese». 
Ci sono due libri la cui lettura impedisce al protagonista di «Insonnia» di dormire: «Pasto nudo» di William S. Borroughs e «La scomparsa» di Georges Perec. Tutto questo è autobiografico?
«Certamente. Pasto nudo è così violento: non mi piace questo tipo di letteratura. La scomparsa è irritante. Un giorno incontrai Perec e glielo dissi: ti odio per aver scritto quel libro. Ci era andato giù duro: 300 pagine senza mai utilizzare la vocale "e". Un pazzo».
Lasciò il Marocco nel 1971 (e qualche anno prima, su ordine di Hassan II, era stato messo in un carcere militare assieme ad altri studenti, per aver organizzato delle manifestazioni). Arrivò a Parigi. Se fosse giunto qui oggi sarebbe stata la stessa cosa?
«Assolutamente no. Innanzitutto avrei avuto bisogno di un visto, allora non ci voleva. E poi in quell’epoca l’immigrazione non era un tema trattato dai media, non ne parlava nessuno. Era tutto più facile. Il Partito comunista aveva più del 20% dei voti. Oggi è il Rassemblement national di Marine Le Pen ad avere la stessa percentuale. La Francia accoglieva e non si poneva il problema, perché l’immigrazione non era un tema politco. E poi non c’era disoccupazione».
Era al fianco di Umberto Eco, nel novembre 2015, quando fondò La Nave di Teseo, che pubblica «Insonnia» in questi giorni. Che ricordo ha di lui?
«L’avevo conosciuto una trentina di anni fa ed eravamo amici davvero. Quando veniva a Parigi, ci davamo appuntamento in un ristorante e parlavamo di tutto. Con lui non ti annoiavi mai. Era un uomo pieno: di parole, di storie da raccontare, di generosità, di whisky, di buon cibo. Avrebbero dovuto dargli il Nobel e invece l’hanno assegnato a Dario Fo, robe da matti».