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 2019  settembre 14 Sabato calendario

Intervista a Pippo Baudo su Domenica In

Pippo Baudo, lei è il recordman di Domenica in, ne ha condotte ben tredici edizioni. Il programma ha debuttato nel 1976, e adesso siamo ancora lì che la annunciamo, la aspettiamo, la guardiamo, chiamiamo «zia» Mara Venier. 1976-2019: non è veramente troppo?
«I titoli dei programmi vanno mantenuti, sono un po’ come le testate dei giornali. Quelle mica cambiano. Solo che bisognerebbe rinnovarsi, e molto velocemente».
Cominciò a condurre «Domenica in» giusto 40 anni fa, nel 1979, e lei, di anni, ne aveva 43: che cosa fece?
«Il programma nacque ai tempi dell’austerity, l’idea era intrattenere gli italiani davanti alla televisione, poiché non potevano viaggiare in auto. Il primo conduttore fu Corrado, che naturalmente diede al programma la sua forte connotazione. Io dovevo fare qualcosa di diverso. E allora pensai a un rotocalco. Guardare Domenica in doveva essere come sfogliare una rivista, trovando politica, attualità, cultura. Cominciarono le presentazioni dei libri, venivano da me scrittori normalmente refrattari al video, ricordo Fruttero e Lucentini, o Montanelli. Pure tra i politici: mio fiore all’occhiello fu Berlinguer, che era parecchio timido e non si metteva mai volentieri davanti alla macchina da presa. E ricordo uno degli incontri con Andreotti: per preparare l’intervista mi ricevette alle 7 del mattino nel suo studio di corso Vittorio a Roma, in veste da camera. Parlammo di tutto, ma non di quello che gli avrei chiesto l’indomani. Onorevole, gli chiesi alla fine: ma, e l’intervista? E lui: domani improvvisiamo. Il fatto è che i politici non avevano l’attuale dimestichezza con la telecamera, figuriamoci i social».
Un altro mondo, certamente: però si potrebbe ancora definire Domenica in» un rotocalco?
«Ma, cosa vuole, il rotocalco è stato sostituito dal cazzeggio. Si va sul facile. Si pensa agli ascolti: anche se... Io realizzavo ascolti molto importanti con i libri, non mi si venga a dire che la cultura non fa ascolto. Certo, bisogna prepararsi perfettamente, leggere tutto, informarsi. L’Unione Editori aveva fatto uno studio: un passaggio a Domenica in valeva in automatico 50 mila copie di vendita. Volevano persino istituire un "comitato editoriale" per valutare quale volume dovesse essere presentato e quale no. Ovviamente dissi: se fate una cosa così mi dimetto. E non la fecero. Insomma, ogni tanto bisogna anche ribellarsi».
Questo suo ruolo è stato ereditato da Fabio Fazio?
«Lui lo fa bene, il suo lavoro, certo».
Però la sua rivoluzione fu parlare diffusamente di libri con gli scrittori dopo il pranzo domenicale italiano, giusto?
«Quella fu la scommessa. E realizzare una trasmissione che andasse avanti dalle 14 alle 20. Mi hanno sempre preso in giro tutti per la mia tv-maratona, tv-messa cantata. Ma la sua logica ce l’ha».
O ce l’aveva?
«Bisogna porsi delle asticelle, come nel salto: sempre più in alto. E tu conduttore devi portare il pubblico a saltare, quindi ad elevarsi, con te. Ci vuole tempo, il tempo non c’è più, e la volontà è quindi quella di abbassare tutto. Che peccato».