La Stampa, 14 settembre 2019
Il mondo cambia, Domenica In resta
Non ci sono più le stagioni «di una volta». Saltano i cicli della natura – a dispetto del negazionismo climatico – ma, tutto sommato, una certezza rimane ancora. Perché anche quest’anno riparte Domenica In, con alla guida Mara Venier, «format vivente della trasmissione» (come l’ha definita la direttrice di rete Teresa De Santis), e Orietta Berti quale «opinionista fissa». Naturalmente, per usare il lessico sportivo, vale – eccome – anche per il piccolo schermo il motto «squadra che vince non si cambia»; e, quindi, visto lo share raggiunto da questo contenitore domenicale nel corso delle sue innumerevoli edizioni, la propensione alla prudenza e l’istinto alla conservazione della Rai si ritrovano supportati dal dato oggettivo degli indici di ascolto. Ma, più in generale, questo alluvionale (e immortale) varietà del dì di festa è diventato il simbolo per antonomasia di una tendenza sempre più marcata della televisione generalista, quella che Aldo Grasso ha condensato nella formula del «ritorno dell’identico», guarnito tutt’al più da qualche «falso movimento».
E dire che il suo debutto, il 3 ottobre del 1976, avvenne nel pieno di una stagione di significativo fermento e rinnovamento della tv italiana. Tra la seconda metà degli Anni Settanta e l’inizio degli Anni Ottanta molto stava infatti cambiando nel tubo catodico, e a una velocità decisamente sostenuta. Si cominciavano a sentire gli effetti della riforma della Rai del ‘75 che, nel nome del pluralismo informativo, sanciva il passaggio del controllo del servizio pubblico radiotelevisivo dal governo al Parlamento, modificava l’offerta dei telegiornali e prefigurava la nascita di una terza rete. E il monopolio Rai, assicurato per via legislativa, assisteva allo sviluppo di una (caotica) concorrenza di fatto con il fiorire delle tv locali e dei primi canali privati nazionali.
In questo scenario, sulla Rete Uno, vedeva così la luce Domenica In, una trasmissione parecchio figlia dei propri tempi, dal momento che, in clima di austerity economica, la tv di Stato programmava questo spazio per scoraggiare le uscite di casa delle famiglie. Una portaerei della concezione tradizionalista della Rai – e dell’Italia – nutrita dalla Democrazia cristiana, il partito-Stato che dava la linea e le carte nel primo canale pubblico. E, infatti, la Rete Due, in quota al Partito socialista secondo le regole della lottizzazione, le contrappose L’altra domenica (dove l’aggettivo era proprio riferito all’alternativa a Domenica In), ideata e condotta da Renzo Arbore, con un orientamento più «moderno» e irriverente (va da sé, compatibilmente con il frame della tv di Stato).
Fin da subito, per l’appunto anche per tenere gli italiani incollati alle poltrone del salotto, Domenica In fu una trasmissione-fiume, che iniziava alle 14 e terminava alle 19,50, pochi minuti prima della messa in onda del tg serale. Lo presentava nella sua prima edizione Corrado, affiancato dalla valletta Dora Moroni, in diretta dallo Studio 5 di Via Teulada, a Roma; la preposizione «in» era polisemica, e stava a significare «introduzione», «insieme» e, soprattutto, «incontro».
Si trattava di un varietà nel senso letterale del termine, con un’offerta molto ampia che andava dal telequiz al calcio, dal giallo al telefilm. Ovvero quella dimensione di contenitore con dentro di tutto un po’ che ha continuato a costituire la spina dorsale di questo programma domenicale nel corso del tempo; e che rispecchia la natura del varietà come il più indefinito dei generi dell’intrattenimento televisivo, il cui vero denominatore comune coincide nei fatti con la figura del conduttore. Così, le variazioni di questo contenitore nazionalpopolare si possono leggere proprio attraverso l’avvicendarsi degli stili dei suoi presentatori e presentatrici (alcuni dei quali, peraltro, assai longevi).
Certo, Domenica In si è adattata al mutare delle fasi televisive (e politiche), fino a «realitizzarsi» (nel senso dell’imperialismo del paradigma del reality show sul piccolo schermo domestico), ma la sua storia e il suo format restano immutabili. E la trasmissione si è tenuta ben al riparo dalla convergenza mediale che, da qualche anno, costituisce la complessa sfida che le tv del vecchio servizio pubblico - obbligate a convertirsi in digital media company - si trovano a dover combattere.
E dire che, nel frattempo - e stiamo parlando di più di quattro decenni -, è successo di tutto. Sono caduti muri (a partire da quello di Berlino), la globalizzazione ha galoppato, dall’austerity siamo passati alla new economy, poi alla Grande recessione e di nuovo all’austerità (sperando di esserne in via di uscita), e la Chiesa di Roma ha visto succedersi 5 pontefici. Ma Domenica In è sempre qui. Immarcescibile.