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 2019  settembre 14 Sabato calendario

I 100 anni di Fausto Coppi

Fausto Coppi il più grande? Sì, per volontà popolare. La grandezza non si misura solo col numero di vittorie, altrimenti Villeneuve ma anche Pantani non sarebbero ricordati come lo sono. La grandezza di Coppi non è basata sulla forza, pure notevolissima, con cui ha compiuto certe imprese, valgano per tutte i 192 km di fuga solitaria nella Cuneo-Pinerolo, al Giro del 1949. Quanto a forza fisica, su ogni terreno, Merckx gli è stato superiore. Quanto a forza mentale, Bartali gli è stato superiore, e l’ha aiutato più di quanto l’aiutò Coppi. La differenza di età, certo. E l’esperienza. Bartali era già famoso quando Eberardo Pavesi ingaggiò alla Legnano Fausto come suo gregario. Coppi no, sui giornali spesso risultava Cappi, e lui doveva precisare: Coppi, Coppi, come le tegole. Quel Giro Coppi lo vinse, ma stava perdendolo per una crisi sulle Dolomiti. E Bartali andò a scuoterlo: «Rimettiti a pedalare, altrimenti sei solo un acquaiolo». Cioè un portaborracce, un gregario. Punto sul vivo, Coppi si rimise a pedalare. Ma una forma di fragilità mentale gli rimase dentro per tutta la carriera. Dopo nove anni, stessa scena. Coppi cade andando verso Saint-Malo, non è disponibile la sua bici di riserva, sale su quella di un gregario che non ha le misure giuste, perde minuti su minuti e in più fa un caldo incredibile, per essere nel nord della Francia. Coppi si ferma, vuole ritirarsi, dice che ha solo voglia di starsene a casa disteso all’ombra di un albero. Più degli incitamenti di Alfredo Binda, il ct, hanno effetto le parole di Bartali: «Siamo al quinto giorno, hai tutto il tempo, le cronometro e le salite per ribaltare la classifica». E Coppi la ribalterà, sarà il primo ciclista a vincere Giro e Tour nello stesso anno.
Sarà anche il primo a entrare nella leggenda da vivo. E a restarci per sempre, dopo quella morte assurda a poco più di 40 anni. Al ciclismo aveva già dato tutto quello che aveva, chiudendo con l’amarezza di un Lombardia perso da Darrigade nel volatone, dopo averlo dominato. Era l’autunno del ’56, l’autunno del patriarca non avrebbe avuto il tempo di viverlo. Il tempo di rimettersi accanto a Bartali, almeno nelle foto e nelle canzoncine al Musichiere, quello sì. Come nel ’40, allora da giovane promettente, ora da campione sfiatato ma pur sempre con un nome, un’aureola, una tariffa. L’ultimo Coppi per fare da maestro al promettente Venturelli, in una squadra di giovani, la San Pellegrino, col vecchio brontolone sull’ammiraglia. Per entrare nella leggenda bastavano un paio delle dieci vittorie ottenute con fughe solitarie superiori ai 100 km, o la frase sull’uomo solo al comando che era diventata il marchio di fabbrica di Mario Ferretti, il cono di luce in cui entrava lui, Coppi, il ritornello che incantava un’Italia in ginocchio dopo una guerra feroce, un’Italia che si stava rimettendo in piedi. Vorrei tornare al ’49 perché Coppi non fu il solo a entrare nella leggenda, in quell’anno. Ci fu, prima, il Grande Torino (di cui Coppi era tifoso, per inciso). Una trasferta all’estero. Una morte in casa. Un disastro aereo, Superga. Un safari in Alto Volta, l’agonia a Tortona. Se qualcun vuole vedere le immagini dei funerali, anche per capire la compostezza del dolore, anche il più profondo, si assomigliano. Non nella sostanza, tante bare contro una sola. Non nel paesaggio, una città contro un costone innevato, il cimitero in salita di un paesino del Tortonese. Ma nel dolore di una folla silenziosa, come se a tutti fosse morto qualcuno in casa. La grandezza di Coppi si può misurare anche con la sua fragilità. Se Bartali era chiamato l’uomo di ferro, Coppi era l’uomo di cristallo. A parte le crisi, i propositi di ritiro ora rientrati ora attuati, come cadeva si rompeva. Malleolo, clavicole, scapole, bacino. Si rompeva e ricominciava. Tutto, pur di non tornare a zappare la terra. E molta discrezione, quasi umiltà, anche dopo le vittorie più belle. È stato Alfredo Martini, che di Coppi è stato gregario e avversario, a farmelo notare. Quando vinceva, non si atteggiava a perdente, ma quasi. Spesso chiudeva esausto, dovevano sorreggerlo, e Orio Vergani s’inventò per Fausto lo sguardo da cervo morente. Era come, spiega il grande Alfredo, se sentisse il peso di aver battuto, umiliato tutti quanti. Un giorno il giovane Jacques Anquetil andò a trovare Coppi a Castellania. Voleva capire la dimensione del campione, come viveva, cosa mangiava. Coppi lo accolse vestito con una camicia a quadrettoni e i pantaloni grigi di una tuta che aveva vissuto giorni migliori. Anquetil tornò deluso a Rouen: «Pensavo che vivesse in un castello, invece ha le galline che camminano per la cucina». In un castello avrebbe vissuto lui, Anquetil, a fine carriera. Coppi si sarebbe accontentato di una grande villa a Novi Ligure, con maggiordomo. Quando Brera andava a trovarlo, a un certo punto Giulia Occhini si adombrava: smettetela di parlare di quando eravate poveri, adesso che non lo siete più. Era nostalgia, forse, o un tentativo di fuga. Coppi è morto di malasanità, come un povero. E dall’ospedale di Tortona è entrato dritto nella leggenda. Lo sanno quelli che ogni anno a migliaia vanno in bici sull’Izoard davanti alla stele che lo ricorda, oppure a Castellania, un pugno di case dove la sopravvivenza è assicurata da un morto che non morirà mai del tutto. Perché questo è il destino delle leggende.