la Repubblica, 14 settembre 2019
Presi in ostaggio dalle fotografie
Si avvicina il ventennale di un’invenzione dirompente e di portata planetaria, anche se gli effetti immediati sono microscopici, spesso gradevoli e così vicini a noi, da essere impercettibili. A inizio del 2000 si affacciò sul mercato sudcoreano il primo telefonino con una fotocamera, un Samsung. Erano passati tre anni dal primo test, il ritratto sfuocato, realizzato unendo computer, telefono e macchina fotografica dall’inventore francese Philippe Kahn alla figlia neonata Sophie, una sorpresa ai parenti lontani. Un atto d’amore di cui poi, segno premonitore, entrambi si pentirono, perché migliaia di sconosciuti insistettero a fotografarli a loro volta. Passati vent’anni, le immagini scattate da miliardi di “fotografi"ormai inconsapevoli del gesto, spinti da un bisogno irrefrenabile -259 “selficidi” tra il 2011 e il 2017- sono il vocabolario della conversazione intima, ideologica, commerciale, famigliare. Servono a umiliare, sedurree condizionare le opinioni, crearsi o rubare identità; per la docilità digitale a essere manipolate, hanno dato un contributo fondamentale all’epoca della verosimiglianza. Scattiamo come respiriamo, mescolando alto e basso, rendendo tutto equivalente e trascurabile. Dell’epoca con più ricordi potenziali (migliaia di miliardi di scatti l’anno, direzione infinito), non resterà memoria. In crisi è la premessa fondamentale: affidare veridicità all’immagine. Nessuno intuì le conseguenze immani e negative di una trovata piuttosto astrusa: abbinare uno strumento di ripresa al telefono. E se invece che un obiettivofosse stato un termometro? Era inconcepibile che un pulviscolo luminoso potesse creare ossessioni o vittime. Un elenco parziale di queste ultime include: le sensazioni (quando invece di godere un panorama, ci si limita a guardarlo nello schermo), la dignità (immagini diffuse in rete di cadaveri scattate da infermiere con il pollice alzato), la verità (il giornalista Sikh canadese il cui autoritratto postato su Twitter, fu photoshoppato per accusarlo, di volta in volta, di essere stato l’attentatore di Parigi, Bruxelles, Nizza). La vita umana: sul profilo Instagram di una milizia indipendente irachena fu pubblicata la foto di un combattente Isis; il testo lasciava ai followers un’ora per votare se dovessero ammazzarlo o no: la maggioranza non lo risparmiò. Vittima fu Tiziana Cantone, al centro di un terribile ricatto hard. Vittime sono i bambini ritratti dai genitori e inseriti nel flusso di volti disponibili in eterno (una ricerca non recente contava 1500 immagini in rete a testa prima dei tre anni).
Al suo esordio, la “fotografia democratica” era sembrata invece l’occasione felice di dare a tutti lo strumento per diventare testimoni della propria vita; prometteva di arricchire il racconto globale con una miriade di occhi nuovi. Appena fu disponibile un telefonino capace di scatti decenti – il Nokia 7650, era il 2002 – insieme al fotografo Marcello Mencarini, creammo la prima comunità al mondo, “Makadam”, destinata a raccogliere e pubblicare oltre che sul sito, sull’omonimo magazine le fotografie catturate con il cellulare dagli utenti: ne riunimmo qualche migliaio. La speranza era la nascita di una relazione a doppio senso, un’offerta di regole deontologiche, estetiche, tecniche da parte nostra, ricambiata dall’accesso a un mondo invisibile a causa delle nuove leggi sulla privacy: gli spazi, le ore della gente. Si pensava a un trasferimento di scelte etiche dal fotogiornalismo in crisi, all’immenso bacino dei “fotografi” improvvisati. Avevamo intravisto un continente di contributi originali: sentimenti, tic, istinti della vita di tutti i giorni. Riuscimmo a pubblicarli su giornali; stampammo libri, organizzammo mostre con gli scatti “facili” della comunità. Il progetto durò soltanto quattro anni, ma conteneva qualcosa di buono e che vale la pena rievocare ora che questa rivoluzione ha cambiato strada. Perché l’idea di una fotografia partecipativa ha fallito? Non c’è una causa: è però possibile indicare alcuni elementi di disturbo, terzi incomodiche l’hanno “sequestrata”. Ci si era illusi che intervenisse una contaminazione di contenuti ed estetiche dal basso, e che le testimonianze della propria esistenza fossero trasmesse con un’infinità di stili espressivi; invece i modelli di racconto s’impongono dall’alto come gabbie: uniformarsi è facile e obbligatorio. Prevalgono i format convenienti agli algoritmi, per fare delle fotografie in rete l’anima è il motore della pubblicità. Ci si aspettava l’emergere di una ribelle babele di voci, ma le logiche di mercato hanno prodotto pecore obbedienti a standard; zittendo così il dialogo del mondo, perché l’estraneità non nasce quando si hanno opinioni (o immagini) opposte, ma quando si somigliano. Sguazziamo in racconti che mimano il già noto, i soliti noti (influencers ecc.). Davamo per scontato che le persone sapessero scegliere chi, cosa e quando fotografare. Invece tutto deve essere visibile; anche per questo, la sconfitta più bruciante riguarda la sferadell’intimità. Contavamo che chi rivolgesse l’obiettivo verso il proprio amore, l’avrebbe fatto rispettando l’altrui unicità e rendendosi disponibile a essere a propria volta trasformato da questo incontro di volti, corpi, geometrie e luce.Così non è stato e l’altro si fa trascinare o si getta per primo in un terreno di foto e pose impersonali, dalle labbra ai piedi. Eravamo convinti che i fotografi da telefono, potessero un giorno affiancare i professionisti. Non avevamo previsto che l’indigestione d’immagini avrebbe stordito, annichilito gli spettatori. L’americano Paul Melcher, esperto dell’industria fotografica, scrive di una “putrefazione” della fotografia in sé: “Le foto sono diventate così comuni, indifferenziate, simili da aver perduto senso. Non comunicano più nulla”. Cercano di catturare il nostro sguardo, nessuna riesce e nella degradazione dell’attenzione trascinano gli scatti per cui un fotoreporter ha rischiato, ha studiato. La nostra relazione con le immagini è stravolta: da fonte d’informazione, piacere o prova di un legame a ricerca insaziabile di un’altra immagine.
C’è una ragione di questa dipendenza: per decifrare un’immagine, il cervello impiega un millesimo del tempo necessario per una parola. In attesa di nuovi ribelli o idee balzane, potremmo appiccicare agli Smartphone scritte simili a quelle dei pacchetti di sigarette. Guarda, non scattare. Oppure: Stampa se no perdi il ricordo. Oppure: Non mettere a rischio la privacy di tua figlia. O ancora: Se non sei Kylie Jenner, cambia espressione.