la Repubblica, 14 settembre 2019
Rihanna accende le luci di New York
Prima le buone notizie: non è andata così male a New York. Cioè, margini di miglioramento ce ne sono, però le idee sono parse più chiare e precise rispetto al passato. La città non ha l’autorevolezza di Milano e Parigi né lo spirito di provocazione di Londra, però sarebbe sbagliato liquidarla come inutile: il suo ruolo sta nell’identità stessa dell’estetica Usa. Vale a dire una moda “pragmatica” (jeans e sportswear sono nati qui) e democratica per natura, e che diversi marchi hanno finalmente abbracciato. Detto questo, la vincitrice morale della stagione non è un designer: è Rihanna, con la sua linea di lingerie Fenty. Anche questo è molto americano. Trionfo meritato, sia chiaro. Lei è stata una delle prime a puntare con le sue collezioni (make up, p-à-p e biancheria, per l’appunto) su uguaglianza e inclusività, i temi più discussi e sentiti oggi, e la presentazione organizzata a Brooklyn non è stata da meno, tanto da essere salutata come la “tomba” di Victoria’s Secret. Dopo questo show, infatti, quelli del colosso della lingerie sexy con le loro modelle filiformi e perfette sono apparsi anacronistici. Da Rihanna s’è visto di tutto, ed è stato galvanizzante: performer di ogni età, genere, taglia, razza e condizione fisica, tutte entusiaste e orgogliose di sé. L’evento sarà visibile dal 20 su Amazon Prime Video: un’altra pietra miliare.
Tom Ford con coerenza mira a quello sportswear di lusso proprio dello stile americano. Con l’aggiunta di una bella dose di sensualità, ovviamente. Le sue donne sfilano su un binario in disuso della metropolitana (la fermata è Delancey Street, nel Lower East Side), le mani in tasca e la camminata rapida: nessuna stampa o ricamo, jersey drappeggiato alla maniera di Halston, giacche superbe, shorts da atletica leggera ai minimi termini, busti di metallo come quelli del ’69 di Yves Saint Laurent. Collant velati e cappellino da baseball, molto americano. Non c’è nulla di sbagliato, ma manca qualcosa. Ford ha spinto sui suoi pezzi più rodati, ma così facendo sembra aver perso mordente. Da Oscar de la Renta vanno sul sicuro anche Laura Kim e Fernando Garcia, puntando sulle origini sudamericane dello stilista scomparso nel 2014 e sul suo amore per gli abiti da sera. Scelta molto indovinata.
Michael Kors celebra l’America attraverso sua nonna Lena, arrivata a Ellis Island dal Centro Europa a 14 anni, da sola e con 10 dollari in tasca: la collezione è un omaggio a lei e a tutti quelli che hanno cercato una vita migliore qui. Non è che certi riferimenti siano proprio immediati in passerella, se non negli abiti anni 40 del finale. Ma la collezione è bella e desiderabile a prescindere, a partire dalle giacche-body portate con i pantaloni maschili ai pullover a rombi abbinati alle gonne a pieghe. Sono pezzi pensati per durare, ed è questa la loro dote migliore. Un’altra creativamente proiettata sulla lunga distanza è Gabriela Hearst, amata da Michelle Obama e da poco in forze a LVMH. Il fatto che il gruppo punti su di lei ne fa intuire le potenzialità, e la sfilata le conferma: la stilista sa dos are femminilità e minimalismo, risultando attuale senza cadere nel trendy. Sono equilibri complicati.
Da Coach 1941 è la NY degli anni 80 a essere tirata in ballo; il fatto che il designer Stuart Vevers traduca un periodo non proprio leggiadro come quello in capi tanto facili e “veri” va a testimonianza della sua abilità. Di sicuro non è leggera la collezione di Marc Jacobs: 60 look per 60 donne diverse, una più eccentrica ed eccessiva dell’altra. Uno spettacolo mozzafiato, ma i suoi non sono abiti, sono costumi con poca o nessuna attinenza con la realtà. E questooggi non basta più.